3. Strutture pastorali

Da quanto detto, consegue logicamente che le forme di pastorale (etimologicamente pessimo termine ormai attestato, anche se l’altrettanto diffuso “cura d’anime/seelsorge” è anch’esso singolare) siano molto diverse e vadano da “missioni” dedicate, a attenzioni specifiche nella gestione ordinaria delle comunità, fino a forme di disprezzo dichiarato, che condivide il razzismo dei gruppi xenofobi (in Italia del Nord ci sarebbero tristi statistiche da addurre) o al totale disinteresse, come risulta spesso anche nei paesi ad alta densità di presenza rom.

Per certi aspetti si può affermare che nel secolo scorso si è sviluppata una forma diversa di rapporto, meno paternalistico e più rispettoso, in concomitanza a diversi fattori storici ed ecclesiali. D’altra parte, secondo studi storici e archivistici tuttora in corso, apprendiamo che la cura pastorale c’è stata più spesso di quanto si riterrebbe, ma ha fatto (e fa?) fatica a lasciare traccia nella storiografia pubblica e nella memoria ecclesiale. A livello europeo ricordo almeno il Comité Catholique International pour les Tsiganes [CCIT], fondato nel 1976 dal prete francese Barthélemy (Yoshka, per tutti) e dai coniugi belgi Elisa e Léon Tambour: legato in maniera particolare alla Chiesa Cattolica, si vive tuttora (una ventina i paesi coinvolti) con profondo spirito ecumenico e laico. Mantiene anche la maniera diretta degli inizi, legata a forti vincoli amicali, che ne costituiscono «lo spirito».  

4. Modelli di evangelizzazione, immagini di Chiesa

Per la Chiesa Cattolica il Vaticano II rappresenta un importante spartiacque, per la struttura di conversione – a Cristo, al Regno, al mondo – che ha dato vita a una sorta di rivoluzione copernicana e suscitato una missione svincolata da colonialismo, paternalismo, eurocentrismo, almeno negli intenti. Non si deve tuttavia dimenticare quanto ha caratterizzato la Mission de France, di cui si trova icastica rappresentazione nella parole di Magdeleine Delbrêl in occasione della partenza di missionari dal porto di Le Havre: «Signore ognuno di noi è a una delle tue frontiere […] noi avevamo pensato che tutti i paesi fossero segnati sulle carte geografiche e che le linee nere che indicano le ferrovie e i battelli fossero sufficienti per andare dagli uni agli altri. Vivendo in mezzo agli uomini, noi abbiamo imparato il contrario. Se ci sono carte geografiche in estensione, ce ne vorrebbero in spessore».[9] Già nel 1938 (Noi gente di strada) si mostrava pronta a riconoscere lo Spirito presente in ogni contesto umano, e dunque a delineare una “missione” non basata sul proselitismo ma sulla condivisione e la stima per i contesti in cui svolge. A queste traiettorie vanno aggiunte quelle provenienti dalla tradizione di Charles de Foucault e delle famiglie religiose che si ispirano a lui, nonché la lezione delle teologie della liberazione latinoamericana e politica, europea. 

[9] Madeleine Delbrêl, Missionari senza battello (1943).

Senza con questo ritenere che vi sia stato un unico rinnovato modello in contesto Rom, tutte queste dimensioni sono state di enorme importanza e hanno dato vita – mi riferisco ora in particolare all’Italia – a un’esperienza peculiare, che ha privilegiato la stima delle culture Rom e la condivisione di vita in piccoli nuclei abitativi, spesso in roulottes, caravans, baracche (chabolas). Giunta a maturità tale da essere oggetto di studi antropologici,[10] vede oggi una non facile transizione, sia per l’incompiuto passaggio di consegne in termini generazionali, che per la caduta di stima da parte dell’organizzazione pastorale nazionale, più esposta in altre direzioni. La modalità di “condivisione” non è tuttavia solo una forma di evangelizzazione (oggi paradossalmente al centro del magistero cattolico, per la stima di Bergoglio verso le «periferie»), ma un punto di vista sulla Chiesa, convocata oltre se stessa, testata ed evangelizzata dalle minoranze. Un sinodo locale di Verona (2002-2005) rendeva perfettamente questo orizzonte: «sogniamo una Chiesa discepola, sinodale, compagna di viaggio, estroversa e solidale».

[10] Leonardo Piasere, “The Catholic Church and the Evangelization of ‘nomads’ in Italy”, in Nomadic Peoples (forthcoming).

5. Le sfide

Paolo VI nel 1956 a Pomezia (Roma) ebbe a dire a un pellegrinaggio zingaro: “Voi nella Chiesa non siete ai margini, ma, sotto certi aspetti, voi siete al centro, voi siete nel cuore”. Segnò così un momento storico, perché fu il primo discorso papale ufficiale, che non fosse un bando di esclusione dallo Stato Pontificio. Tuttavia con l’osservazione che la centralità è «sotto certi aspetti», mostrava la consapevolezza che la sfida era – ed è tuttora –  in corso. Non solo per l’uscita dai localismi e dai razzismi risorgenti o mai sopiti, ma anche la posta in gioco di una comunità ecclesiale chiamata a vivere ai propri confini, senza paura di perdersi.

In questo senso allora si può recuperare anche l’idea di “gente del viaggio”, abituata a valicare i confini, in molteplici sensi: se come si è detto il nomadismo corrisponde solo in piccola parte alla reale situazione abitativa, la sua evocazione mantiene una enorme forza nell’immaginario collettivo e grandi potenzialità spirituali. Non si può nascondere il rischio di cadere nel romanticismo del Wanderung  e degli stereotipi – e dunque ogni discriminazione va combattuta, così che le forme di esclusione o di reclusione in ghetti entri a pieno titolo negli elementi dell’esame di coscienza. Tuttavia, contemporaneamente, l’idea di essere «miti lottatori» e «viaggiatori leggeri» (Alex Langer – 1946/1995) è ancora potente: persone e chiese che attraversano i recinti, capaci di piangere e di ballare, di stendere la mano quando serve e di offrire ospitalità immediata, a casa propria ovunque e nello stesso tempo rivolti all’Oltre.


Author

Cristina Simonelli, laica, ha vissuto in contesto Rom dal 1976 al 2012. Dal 2013 è Presidente del Coordinamento delle Teologhe Italiane (www.teologhe.org) ed è docente di storia e letteratura della Chiesa Antica (Milano e Verona).

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