3. Dire la chiesa come “popolo di Dio”: una prospettiva necessaria

Il dibattito degli anni ’80 su popolo di Dio riconsegna ad alcune “questioni chiave” per pensare un modello ecclesiologico ed ecclesiale, che sia rispondente alla novità aperta e sancita dal Concilio Vaticano II. La storia della redazione della Costituzione sulla chiesa Lumen gentium mostra con chiarezza l’opzione dei padri per questa categoria e la distinzione di piano posta rispetto alle altre immagini ecclesiologiche, compresa quella tradizionale e amata da molti di “corpo di Cristo”[14]. Dagli Acta synodalia si raccolgono facilmente le motivazioni che li hanno guidati ad accogliere la proposta del card. Suenens di inserire un capitolo dedicato al “popolo di Dio” prima delle parti dedicate alla gerarchia e ai laici: la radice biblica in Israele, la possibilità di esprimere la natura storica ed escatologica del soggetto collettivo, la radice battesimale di appartenenza e di soggettualità come elemento comune a tutti i christifideles, previo a qualunque successiva determinazione ministeriale da cui deriva la coscienza della uguale dignità e della corresponsabilità nell’unica missione. La volontà di recuperare una prospettiva misterica in ecclesiologia, con il superamento della visione societaria e gerarcologica, trovò concretizzazione nel ricorso alla categoria “sintetica” -a un tempo sociologica e teologica- di “popolo di Dio”. È la ripresa, sostenuta da pochi ma essenziali studi preconciliari, di una categoria carsica: presente in alcuni basilari testi ecclesiologici neotestamentari (capace di esprimere la continuità tra la fase gesuana nella raccolta escatologica del popolo per la venuta del Regno di Dio e la autocompresione ecclesiale delle prime comunità, nella unione di giudeocristiani ed etnocristiani), ma marginale per secoli nel pensiero teologico; ridotta a sinonimo di plebs a partire dal IV secolo, ma mantenutasi con un significato inclusivo e universale nel linguaggio liturgico; riapparsa con il Concilio per poi sparire dal linguaggio del magistero e di molta teologia dagli anni ’80 in poi, mentre continuava a scorrere viva nelle chiese della America Latina. È in questo orizzonte di confronto critico, tra le proposte ecclesiologiche latinoamericane[15] e le prese di posizioni magisteriali prima ricordate, che possiamo riaffrontare alcuni snodi rimasti non adeguatamente approfonditi nella trattazione conciliare, che una decisa volontà di recepire il Concilio in contesti socio-culturali altri dall’Europa ha portato a parola. Nel ricorso (o nel rigetto e nella ricollocazione ai margini) della categoria di “popolo di Dio” entrano in gioco questioni di tipo antropologico (relazione tra soggetti individuali “credenti” e soggetto collettivo chiesa; criteri di appartenenza ecclesiale e di riconoscimento di soggettualità; valore delle culture dei popoli), e questioni di tipo teologico (come si dà la mediazione ecclesiale nella realizzazione della storia della salvezza, nella realizzazione del Regno nel cammino storico della umanità? Come si correla la natura misterica della chiesa e la sua esistenza di soggetto collettivo istituzionale?). Più in generale, una questione epistemologica: il ricorso a immagini e metafore che presentano la natura ecclesiale è sufficiente o siamo necessariamente rinviati a categorie sociologiche? È un processo di istituzionalizzazione aperto che devo investigare o devo privilegiare l’esame delle strutture già date?

a. I documenti prima ricordati della CDF, del CTI, il Sinodo del 1985 pensano “popolo di Dio” quale immagine di chiesa, relativizzandola tra altre immagini bibliche e riportandola (sulla base di una idea prospettata da G. Philips nel suo commento ai capp. I-II Lumen gentium) a elemento di un “dittico inscindibile e imprescindibile”: “mistero e popolo di Dio”. Viene così trascurato il fatto che ci troviamo davanti a una espressione che unisce una categoria sociologica (popolo) a una determinazione teologica costitutiva, espressa attraverso il genitivo di autore e di appartenenza “di Dio”. Proprio per questo essa può definire la forma fondamentale di chiesa, contemporaneamente data come istituzione, soggetto storico riconoscibile, unità plurale di molti, che esiste e vive perché contemporaneamente e correlativamente soggetto sul piano misterico, generata dalla e nella comunicazione di fede cristologica e oggetto di un Credo ecclesiam qualificato pneumatologicamente. 

Non si può certamente misconoscere il fatto che “popolo” è una categoria sociologica non scevra da ambiguità, dal momento che non esprime immediatamente il criterio di appartenenza specifico dei suoi membri (come i suoi detrattori non hanno mancato di rilevare) e sono facili gli scivolamenti verso l’idea di “nazione” o di “classe popolare”, o le interpretazioni a orientamento populista[16]. In questo senso l’uso in forma isolata del sostantivo “popolo” o dell’aggettivo “popolare” (riservando alla fase escatologica da raggiungere il darsi del “popolo di Dio”) in alcuni esponenti della teologia della liberazione può dare luogo a fraintendimenti. D’altra parte va messo in luce che si tratta di uno strumento ermeneutico fondamentale, imprescindibile in ecclesiologia, proprio per la presenza del lemma “popolo”, in cui si esprime la forma peculiare del soggetto collettivo “chiesa”. È una categoria che dice contemporaneamente la dimensione storico-salvifica e collettivo-istituzionale che segna il “Noi ecclesiale”, evitando ogni destoricizzazione del soggetto (nella quale cadono i concetti di “mistero” e “sacramento”) e contemporaneamente ogni appiattimento sul solo piano sociologico (come avviene per “società” e “comunità”). Il giusto richiamo al fondamento cristologico e al principio pneumatologico (CTI: «il popolo di Dio procede dall’alto, dal disegno di Dio») non devono far dimenticare che la chiesa è istituzione umana e non si può predicare in essa l’azione del Cristo e del suo Spirito prescindendo dalla vicenda storica dei soggetti credenti che la compongono, o sottovalutando le leggi sociologiche che guidano l’aggregazione, l’agency, l’esercizio del potere. 

b. In secondo luogo, la reinterpretazione della categoria ecclesiologica a partire dal “popolo povero e oppresso” da una parte ha dato volto reale e autentico alla recezione nel contesto sociale latinoamericano segnato da una situazione socio-economica di ingiustizia antievangelica, dall’altro ha richiamato la chiesa intera alla memoria pericolosa dell’annuncio del Regno di Dio: la raccolta escatologica del popolo di Dio comporta una lotta per la giustizia, la pace, l’inclusione, il superamento dei conflitti, un “prendere parte” per coloro che sono emarginati, sfruttati e insieme riconoscere la parola di annuncio del Regno che viene dalla loro sapienza di vita, dalla loro fede aperta alla provvidenza e alla condivisione, dalle loro lotte. Il documento della CTI e la stessa Istruzione del 1984 finiscono per parlare dei poveri come “destinatari” dell’annuncio cristiano, senza riconoscere la loro appartenenza ecclesiale e la loro soggettualità di parola nella comprensione del vangelo e nel suo annuncio a tutti. D’altra parte non bisogna dimenticare che per secoli “populus” ha indicato la “plebs”, povera, incolta, marginale. Il Concilio dà indubbiamente all’espressione un valore inclusivo e collettivo (e con questo non vuole misconoscere le differenti condizioni dei soggetti singoli che la compongono), ma non si può negare che «a misura che la chiesa si apre al popolo si fa sempre più essa stessa popolo di Dio»[17].

c. I teologi europei che hanno mantenuto per tutta la fase post-conciliare la categoria di “popolo di Dio”[18] come ricapitolativa e orientativa della loro visione ecclesiologica hanno mostrato le sue virtualità per indicare la soggettualità di tutte e tutti i battezzati, l’uguale dignità e la compartecipazione nell’unica missione messianica, con una ricollocazione della stessa figura dei ministri ordinati. Alcuni hanno lamentato il rischio di una deriva “democraticista”; altri hanno invece ricordato quanto ci sia ancora molto da fare per fare parola a tutti nella e per la vita del popolo di Dio. Questo tratto di autocoscienza di popolo, a cui si appartiene per la professione di fede e il battesimo, ha sempre preservato il corpo ecclesiale dalla tentazione di pensarsi quale “setta elitaria” o di appiattirsi su logiche corporativistiche: la chiesa è popolo a cui appartengono bambini e adulti, persone mature nella fede e cristiani che muovono i primi passi nella comunità, teologi di accademia e persone che iniziano percorsi catechistici di base, uomini e donne. Le differenze di sesso, lingua, cultura, grado di istruzione, condizione fisica e mentale, non devono dare luogo a esclusione o indebita gerarchizzazione interna.  

d. Infine, la “teología del pueblo” argentina ha portato in primo piano il rapporto tra popolo di Dio e cultura/culture. Da un lato parlare di “popolo di Dio” vuol dire abbandonare i modelli collettivi sociali e politici di identità (nazione, razza, classe), dall’altro il popolo di Dio è presente, insiste, si incarna (LG 13: «inest») in molti popoli. Con un’analisi che si avvalsa di un confronto con scienze sociali di taglio ermeneutico, mossi da una critica decisa agli strumenti di analisi marxista usati da molti teologi della liberazione, L. Gera, J.C. Scannone, R. Tello hanno preso in esame il fattore culturale e la volontà politica per l’appartenenza a un popolo e hanno ipotizzato per l’America Latina l’esistenza di una pluralità di culture ma informate da una sola religiosità popolare, che chiede quindi la promozione di una pastorale popolare che da questo specifico tratto di identità operi proposte di vita ecclesiale[19]. A differenza di altre correnti della teologia della liberazione, la “scuola argentina” non è stato oggetto di particolari critiche. Il tema così sollevato suggerisce però un’ulteriore possibile problematica in gioco nel ricorso alla categorizzazione di popolo di Dio: quelle interferenze tra coscienza nazionale, spirito messianico e motivazione religiosa di cui si sono sentiti investiti alcuni popoli e alcune chiese[20].

Conclusione

“Popolo di Dio” è al centro delle direttrici interpretative e delle riforme strutturali di una chiesa che voglia accogliere la prospettiva del concilio Vaticano II in una chiesa divenuta mondiale e culturalmente policentrica, nella quale l’apporto di laici e laiche deve essere finalmente riconosciuto e logiche realmente partecipative promosse, in cui una chiesa povera e dei poveri dia verità al servizio al Regno di Dio nella storia. La visione di “chiesa popolo di Dio” –secondo il Vaticano II- può e deve qualificare la coscienza personale e collettiva dei soggetti ecclesiali; essa intercetta e qualifica il piano della forma delle relazioni ecclesiali (partecipative, sinodali, ecclesiali) e perciò può e deve permearle e plasmarne il ripensamento. Deve conseguentemente orientare la riforma delle strutture comunicative, organizzative, decisionali, formative, di cui si avverte la necessità perché la forma popolare di chiesa sia sperimentata e realizzata. In fondo, è proprio sulla mancata promozione di processi istituzionali (e di relative strutture) che attuassero la visione del secondo capitolo di Lumen gentium che si è in parte arenata la recezione del Concilio. Ogni processo di riforma di istituzioni eterogenee tocca sempre contemporaneamente e correlativamente questi tre livelli -coscienza comune riflessa; esperienza di nuove forme aggregative e relazionali; strutture, funzioni, ruoli- e non può che essere promosso operando in modo sinergico su tre vettori trasformativi contemporaneamente. La autorevole riproposizione da parte di papa Francesco dell’ecclesiologia del popolo di Dio (EG 111) orienta ad assumere questa prospettiva.


Notes

[14] Cf. S. Noceti – R. Repole (edd.), Commentario ai documenti del Vaticano II. II. Lumen gentium, EDB, Bologna 2015. 

[15] Cf. A. Quiroz Magaña., Eclesiología en la teología de la liberación, Sígueme, Salamanca 1983, 153-189; G. Fernández Beret, El pueblo en la Teología de la Liberación. Consecuencias de un concepto ambiguo para la eclesiología y la pastoral latinoamericanas, Vervuert, Frankfurt 1996; R. Alvarado, Pueblo mártir. Reflexión sobre el «pueblo crucificado», in Revista Latinoamericana de Teología 16 (1999) 293-306; L. Boff, Chiesa: carisma e potere. Saggio di ecclesiologia militante, Borla, Roma 1984 [or. 1981]; J. Sobrino, Resurreción de la verdadera Iglesia. Los pobres, lugar teológico de la eclesiologia, Sal Terrae, Santander 1981; E. Dussel, Populus in populo pauperum. Dal Vaticano II a Medellín e Puebla, in Concilium 20 (1984) 969-973; I. Ellacuria, Conversione della chiesa al Regno di Dio. Per annunciarlo e realizzarlo nella storia, Queriniana, Brescia 1992, 39-114 [or. 1984]; J. Comblin, Il popolo di Dio, Servitium Città Aperta, Troina 2007 [or. 2002]. 

[16] Da cui non è stata immune la “teología del pueblo” argentina, fortemente segnata dalla vicenda peronista. 

[17] L. Boff, Chiesa: carisma e potere, 213.

[18] Cf. S. Dianich, Ecclesiologia. Questioni di metodo e una proposta, Paoline, Cinisello B. 1993, 231-255; M. Semeraro, Popolo di Dio. Una nozione ecclesiologica: al concilio e venti anni dopo, in Rivista di Scienze Religiose 2 (1988) 29-67; Y.M. Congar, La chiesa popolo di Dio, in Concilium 1 (1965) 22-26; R. Heyer, Réflexions au sujet de l’Église et du peuple, in Revue de droit canonique 49 (1999) 193-205; J.M.R. Tillard, Chiesa di chiese, Queriniana, Brescia 1989 [or. 1987], 101-198. Cf. anche per gli USA J.A. Komonchak, People of God, Hierarchical Structure, and Communion. An Easy Fit?, in Canon Law Society of America Proceedings 60 (1998) 91-102. 

[19] Cf. J.C. Scannone, Perspectivas eclesiológicas de la «teología del pueblo» en la Argentina, in F. Chica – S. Panizzolo – H. Wagner(edd.), Ecclesia Tertii Millennii Advenientis. Omaggio al P. Angel Antón, Piemme, Casale M. 1997, 686-704; E. Bianchi, Pobres en este mundo, ricos en la fe. La fe de los pobres de América Latina según Rafael Tello, Agape, Buenos Aires 2012 [tr. it. Introduzione alla teologia del popolo, EMI, Bologna 2015]

[20] Cf. S. Dianich, Popoli messianici ed ecclesiologia, in L. Sartori (ed.), Popoli messianici, EDB, Bologna 1987, 235-247.


Autrice

Serena Noceti (1966), docente stabile ordinario di teologia sistematica presso l’Istituto Superiore di Scienze Religiose di Firenze; tiene corsi presso la Facoltà teologica dell’Italia centrale. Socia fondatrice del Coordinamento Teologhe Italiane, è vicepresidente dell’Associazione Teologica Italiana. Tra le sue pubblicazioni, dedicate in particolare all’ecclesiologia, alla teologia di genere e alla catechesi, si segnalano S. Dianich – S. Noceti, Trattato sulla chiesa, Queriniana, Brescia 2002, 20153; M. Perroni – A. Melloni – S. Noceti (edd.), “Tantum aurora est”. Donne e Vaticano II, LIT, München 2012; S. Noceti – R. Repole (edd.), Commentario ai documenti del Vaticano II, EDB, voll. I-V, Bologna 2014-2017; S. Noceti (ed.), Diacone. Quale ministero per quale chiesa?, Queriniana, Brescia 2017.

Indirizzo: Piazza Torquato Tasso, 1/A – 50124 Firenze FI (Italia).

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