Enrico Galavotti

« Istanze del rinnovamento teologico a partire dal Concilio »

Linda Hogan, João J. Vila Chã, Michelle Becka

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Il mezzo secolo che ci separa dalla conclusione del Concilio Vaticano II rappresenta un arco di tempo sufficiente per appurare quanto l’evento conciliare abbia sortito un impatto fondamentale nella ridefinizione dello statuto e dei compiti della teologia. Il Concilio era scaturito in una fase che pure era densa di impulsi rivolti a rinnovare il lavoro teologico, che tuttavia erano stati oggetto di una sistematica campagna di devitalizzazione. Quando si rileggono oggi gli interventi del magistero romano del mezzo secolo che precedette l’annuncio della decisione di Giovanni XXIII di convocare il Vaticano II si resta colpiti da locuzioni che ricorrevano di frequente e che diventavano l’oggetto stesso del sospetto e della censura: «nuovo» e «novità» erano letti come sinonimi di eterodossia, di deviazione dalla retta fede, di assunzione di criteri di discernimento altri da quelli tradizionalmente indicati dal magistero romano, con tutto ciò che ne conseguiva per i sostenitori di tali novità. Sappiamo come questo fu anche l’atteggiamento che guidò l’elaborazione degli schemi preparatori del Vaticano II, in cui le migliori menti della scuola teologica romana distillarono trattati che intendevano mettere in sicurezza la fede cristiana, considerata costantemente minacciata da parte di un nemico che, di volta in volta, di decennio in decennio, assumeva questo o quel volto[1]. L’allocuzione inaugurale del Concilio pronunciata da Giovanni XXIII sgombrò il campo da molti equivoci: il papa chiarì che il Vaticano II non era stato convocato per sancire nuove condanne, ma per determinare un aggiornamento della Chiesa[2]: era sempre più necessario in un mondo in cui, come aveva scritto Yves Congar l’anno prima, «un uomo su quattro è cinese; uno su tre vive in un regime comunista; un cristiano su due non è cattolico»[3]. In via riservata, poco prima dell’inizio del Vaticano II, Giovanni XXIII aveva appunto detto ad un confidente che chi aveva predisposto gli schemi preparatori non aveva capito che il Concilio non poteva né doveva essere un congresso teologico: e tantomeno un congresso contro qualcuno o qualcosa[4].

Ed effettivamente il Concilio che si concluse nel 1965 con i risultati che tutti conosciamo rappresentò anche un cambiamento radicale della teologia tanto per il suo metodo quanto per i suoi interessi principali. È un dato che si può valutare empiricamente anche solo facendo un raffronto tra i manuali in uso nelle facoltà teologiche prima e dopo il Vaticano II. Prima del Concilio questi manuali, anche se scritti da differenti autori, presentavano costantemente la stessa struttura e gli stessi contenuti. I manuali di dogmatica di Tanquerey o di Billot formarono decenni di generazioni sino alle soglie del Vaticano II. Di quello di Billot il cardinale Parente era arrivato a scrivere nella celebre Enciclopedia Cattolicache «le più ardue questioni trovano una soluzione che si può ritenere definitiva»[5]. L’impostazione di questi testi era perfettamente espressiva del modo di pensare e di lavorare della maggior parte dei teologi di quell’epoca: la preoccupazione principale era quella di mantenersi nella linea già tracciata dagli autorevoli predecessori, limitandosi ad aggiustamenti minimi. E proprio commentando questo modo di lavorare dei teologi, Carl Jung osservava: «sono così avvezzi a trattare con verità eterne che non ne conoscono di altra specie. Quando il fisico afferma che l’atomo è costituito da quella data materia e ne traccia un modello, non intende con ciò esprimere una verità eterna. Ma i teologi non conoscono il pensiero scientifico, e particolarmente quello psicologico»[6]. Era, com’è noto, una teologia di impianto deduttivo, che aveva sviluppato una concezione della tradizione che, in realtà, era molto più ristretta cronologicamente di quanto essi stessi non fossero consapevoli, rimontando al massimo alla interpretazione che ne aveva dato il Concilio di Trento. Assumendo questo approccio la Bibbia veniva addirittura declassata come fonte della Rivelazione ed era ridotta a codice legislativo deputato a confermare gli elaborati dei teologi. Era una situazione alimentata anche dalla tendenza centralizzatrice conosciuta dal papato romano all’indomani del primo Concilio Vaticano, che faceva sì che ogni singolo pronunciamento del papa, a prescindere dal suo oggetto specifico, assumesse, ancorché non si facesse ricorso espressamente all’infallibilità, un valore di definitività[7]. La teologia prodotta dalla scuola romana, che esercitava un ruolo egemone all’interno di questo processo, aveva dunque una pesante responsabilità rispetto all’impoverimento della funzione stessa della teologia[8].

Il Concilio Vaticano II ha messo fine a questa deriva e ha aperto nuove prospettive: e quei manuali che sino a pochi anni prima erano stati descritti come definitivi sono apparsi d’improvviso inutili e fuori contesto. Era l’effetto del mutamento dello statuto della teologia determinato dal Concilio: perché il Vaticano II, affrontando questioni cruciali quali la dimensione liturgica, le fonti della Rivelazione, i rapporti con il mondo moderno e il dialogo con le altre religioni, ha impegnato i teologi in un profondo rinnovamento della riflessione e dei propri metodi di ricerca, ridimensionando drasticamente il ricorso al metodo deduttivo. Erano tutte questioni che erano in parte ben presenti alla teologia, ma che ora esigevano di essere comprese da questa in modo differente dal passato. I padri conciliari avevano infatti dovuto prendere atto di come gli enormi progressi scientifici degli ultimi decenni avessero profilato non solo un mondo molto diverso da quello in cui s’era celebrato il precedente concilio, ma soprattutto un modo diverso di pensare in tutti gli uomini. La Costituzione pastorale sulla chiesa nel mondo contemporaneo parlava così della «mentalità scientifica» che «modella in modo diverso rispetto a un tempo la cultura e il modo di pensare. La tecnica poi è tanto progredita da trasformare la faccia della terra e da perseguire ormai la conquista dello spazio ultraterrestre […]. Ne segue un’accelerazione tale della storia, da poter difficilmente essere seguita da singoli uomini. Unico diventa il destino dell’umana società senza diversificarsi più in tante storie separate. Così il genere umano passa da una concezione piuttosto statica dell’ordine a una concezione più dinamica ed evolutiva; ciò favorisce il sorgere di un formidabile complesso di nuovi problemi, che stimola ad analisi e a sintesi nuove» (Gaudium et spes, n. 5). In questo come in tanti altri passaggi del corpus conciliare i vescovi lasciavano così intendere che proprio la consapevolezza di essere inseriti in dinamiche straordinariamente nuove e ben lontane dall’essere concluse, consentiva loro solo di avviare dei processi di riforma e di ripensamento: non avevano più la pretesa dei loro predecessori di risolverli nuovamente con formule blindate[9]. Ed infatti, quando il Vaticano II ha voluto spingersi troppo nel dettaglio come nel caso del decreto sui mezzi di comunicazione sociale Inter mirifica, ha finito con produrre testi che erano già sorpassati al momento della loro approvazione finale.

In definitiva i padri del Vaticano II postulavano un modo nuovo di accostarsi al cuore della Rivelazione cristiana, con la consapevolezza che anche l’antico binomio Scrittura-Tradizione non poteva più racchiuderne la totalità. Era anche alla storia della salvezza, cioè alla storia degli uomini, che ci si sarebbe dovuti d’ora in poi rivolgere per cogliere la pienezza della Rivelazione cristiana. Mentre infatti la teologia preconciliare immaginava la Rivelazione come il modo in cui Dio comunicava agli uomini i propri insegnamenti, i padri conciliari erano giunti alla conclusione che essa «avviene con eventi e parole intimamente connessi tra loro, in modo che le opere, compiute da Dio nella storia della salvezza, manifestano e rafforzano la dottrina e le realtà significate dalle parole, e le parole proclamano le opere e illuminano il mistero in esse contenuto. La profonda verità, poi, su Dio e sulla salvezza degli uomini, per mezzo di questa rivelazione risplende a noi nel Cristo, il quale è insieme il mediatore e la pienezza di tutta la rivelazione» (Dei verbum, n. 2)[10]. Il Vaticano II ha dunque offerto una differente prospettiva per comprendere la Rivelazione, lasciando intendere come essa, proprio perché si interfaccia costantemente con la storia degli uomini, sia costantemente suscettibile di un approfondimento. Gli eventi storici diventano più chiari nelle loro implicazioni man mano che li possiamo osservare da una prospettiva più distante; e anche il nostro presente, che immaginiamo spesso di poter comprendere in tutti i suoi risvolti – tanto più in un’epoca in cui siamo immersi in un flusso costante e immenso di dati e informazioni – è in realtà suscettibile di una rilettura e di una ricomprensione che a noi oggi non è possibile. Allo stesso modo a partire dal Concilio è diventato sempre più chiaro che la Rivelazione ha una densità di contenuto che era ignota sia a coloro che erano stati i protagonisti diretti degli episodi narrati nella Scrittura, sia a coloro che avevano concretamente partecipato al processo redazionale del testo biblico.

Il Concilio ha quindi impegnato i teologi a mettersi in cammino per compiere lo sforzo di nuova comprensione della parola di Dio, per investigarne appunto quelle pluralità di significati che attendono ancora di essere messe in luce. Nella bolla di convocazione del Concilio (1961) e nell’enciclica Pacem in terris (1963), Papa Giovanni aveva ripreso l’immagine evangelica dei «segni dei tempi», tentando di comprendere dove essi fossero collocabili nella società del suo tempo. Si trattava e si tratta di un compito immane, perché tali «segni» non sono mai identificabili in ciò che è più evidente, piacevole, rassicurante o solenne: ma sono sempre collocati nell’umiltà, nel nascondimento, in ciò che accade senza suscitare clamore. E se rileggiamo i testi conciliari assumendo questa prospettiva teologica ci rendiamo facilmente conto di come i padri abbiano saputo prendere atto di come il loro compito, in quel preciso momento storico, non fosse quello di giungere a punti conclusivi, come invece avevano immaginato coloro che avevano istruito i passi preparatori del concilio che Pio XII aveva infine deciso di non convocare, ma piuttosto quello di far capire a tutti i cristiani di essere collocati all’interno di una storia della salvezza in continuo divenire e che esigeva perciò uno spirito di ricerca permanente.

È quindi fondamentalmente un compito di natura culturale quello che investe la teologia a partire dal Concilio Vaticano II. Un celebre regista italiano ha ricordato poco prima di morire che la cultura non va confusa con il nozionismo o l’erudizione: si può essere uomini di cultura anche con una istruzione scarsissima o assente, perché la cultura è la consapevolezza piena dello spazio che si abita, dei processi profondi e dei confini che caratterizzano il mondo in cui si vive. La teologia è stata perciò investita nell’ultimo mezzo secolo di un compito ancora più importante di quello svolto nei secoli passati, proprio perché è stata impegnata a investigare ogni aspetto della vita umana per coglierne il senso alla luce della Rivelazione cristiana. A partire dal Concilio la teologia ha dovuto rinunciare alla propria sicurezza, così come all’idea di un proprio primato sulle altre scienze. Si tratta di un processo che era certamente iniziato ben prima del Vaticano II: basti pensare a quello che era lo statuto della teologia nel momento in cui erano sorte le grandi università[11].Lo choc della rivoluzione illuminista sembrava aver segnato per sempre la sorte della riflessione teologica, eppure, proprio quando la teologia sembrava avviarsi verso la propria estinzione, essa ha improvvisamente riacquistato centralità: non nel senso di un recupero di posizioni di egemonia, quanto piuttosto per l’affidamento del ruolo di trovare risposte circa il compito e il ruolo dei cristiani in un mondo in costante evoluzione[12]. Questo ha significato e significa immergersi continuamente nelle comunità cristiane: comprenderne le difficoltà e le contraddizioni e cercare di individuare un modo per poter far ancora risuonare l’evangelo di Gesù di Nazaret[13]. Ma ha significato anche prendere atto che non tutte le risposte possono essere trovate nella Scrittura: d’altronde era accaduto così anche al primo concilio di Nicea, quando per la composizione del Simbolo i padri erano ricorsi ad un temine, homousios, che non era contenuto all’interno del canone biblico. La teologia si è cosi mostrata più pluralista e sensibile ai profili culturali del popolo cristiano e, sia pure con reticenze e resistenze, ha anche accantonato l’antica tendenza ad elencare errori e comminare condanne, che era determinata precisamente dalla convinzione che fosse il mondo a doversi attagliare a ciò che il magistero prescriveva.

Siamo dunque di fronte a una teologia nuova sia per i metodi di lavoro sia per gli obiettivi che essa si prefigge. Questo ha significato anche prendere atto dell’insufficienza del Vaticano II: nel senso che proprio per come è stato impostato, il Concilio ha prefigurato l’inizio di un cammino (l’inizio di un inizio lo definiva Rahner) che resta in gran parte ancora da compiere. Anche in questo caso mi limito ad un accenno: non sono mancati, negli ultimi vent’anni, storici anche autorevoli che sostenevano che la ricezione del Vaticano II era rappresentata dal pontificato di Giovanni Paolo II. Questa affermazione, alla luce di ciò che è avvenuto e sta avvenendo a partire dall’elezione di papa Francesco (si pensi ai gesti ecumenici, alla rimodulazione del funzionamento del sinodo dei vescovi, agli impulsi dati alla collegialità e alla sinodalità, ai criteri ora seguiti per le nomine episcopali e le creazioni cardinalizie), può ancora essere considerata congrua? O piuttosto l’attuale pontificato finisce per diventare esattamente, anche in modo involontario, la cartina di tornasole di ciò che non era mai stato fatto ai fini della ricezione del Concilio? Certo, la consapevolezza di essere in mezzo ad un guado genera disagio, anche nei teologi. Credo sia esemplare in questo senso il dibattito che si è acceso intorno alla ricezione dell’esortazione Amoris Laetitia, che al di là delle soluzioni concrete proposte prescrive anzitutto l’assunzione di nuovi criteri di discernimento, che sono il riflesso del differente modo di lavorare dei teologi nella congiuntura attuale. A partire dal Vaticano II la teologia ha dovuto quindi prendere atto del venir meno di un certo positivismo biblico, così come della teologia prêt-à-porter di rigida impostazione giuridica espressa dal Denzinger[14].La Chiesa oggi riconosce di non essere più in possesso di tutti gli strumenti per adempiere alla propria missione evangelizzatrice e questa è anche la ragione per cui, nel post-concilio, si è visto frequentemente come i documenti prodotti dai singoli vescovi o da episcopati riuniti a livello regionale procedessero anzitutto da una serie di analisi sociologiche. La Chiesa ha finalmente compreso che è nella storia degli uomini che è possibile cogliere dati ancora non compresi della verità cristiana: d’altronde già Gregorio Magno, un pontefice chiamato a guidare la Chiesa in una stagione di profonda crisi, in cui era diffusa la convinzione di una prossima estinzione del cristianesimo, ricordava che «la Scrittura cresce con chi la legge»[15]. La teologia scaturita dal Vaticano II ha così fatto proprio l’invito di Giovanni XXIII sul suo letto di morte: «Ora più che mai, certo più che nei secoli passati, siamo intesi a servire l’uomo in quanto tale e non solo i cattolici; a difendere anzitutto e dovunque i diritti della persona umana e non solamente quelli della Chiesa cattolica. Le circostanze odierne, le esigenze degli ultimi cinquant’anni, l’approfondimento dottrinale ci hanno condotto dinanzi a realtà nuove, come dissi nel discorso di apertura del Concilio. Non è il Vangelo che cambia: siamo noi che cominciamo a comprenderlo meglio»[16].


Notes

[1] A. Indelicato, Difendere la dottrina o annunciare l’Evangelo. Il dibattito nella Commissione centrale preparatoria del Vaticano II, Genova 1992.

[2] Cfr. G. Alberigo, Formazione, contenuto e fortuna dell’allocuzione, in Fede tradizione profezia. Studi su Giovanni XXIII e sul Vaticano II, Brescia 1984, pp. 187-222.

[3] Y. Congar, Diario del Concilio, I, Cinisello Balsamo 2005, p. 100.

[4] G. Sale, Giovanni XXIII e la preparazione del Concilio Vaticano II nei diari inediti del direttore della «Civiltà Cattolica» padre Roberto Tucci, Jaca Book, Milano 2012, p. 150.

[5] C. Molari, La teologia incontra la vita, in «Jesus», XV (1993), 3, p. 53.

[6] Citato in ibidem.

[7] Cfr. A. Melloni, Definitivus/definitive, in «Cristianesimo nella Storia», XXI (2000), 1, pp. 171-205, e J.-F. Chiron, L’infaillibilité et son objet. L’autorité du magistère infaillible de l’Église s’étend-elle aux vérités non révélées?, Paris 1999.

[8] S. Adamiak-S. Tanzarella, La teologia romana dei secoli XIX e XX, in Costantino I. Enciclopedia costantiniana sulla figura e l’immagine dell’imperatore del cosiddetto Editto di Milano, 313-2013, Roma 2013, pp. 377-389.

[9] Sulla evoluzione linguistica intrapresa dal Vaticano II si veda J. O’Malley, Che cosa è successo nel Vaticano II, Milano 2008. 

[10] Sul laborioso processo redazionale di questa costituzione si veda R. Burigana, La Bibbia nel Concilio. La redazione della costituzione «Dei Verbum» del Vaticano II, Il Mulino, Bologna 1998

[11] M.D. Chenu, La teologia nel XII secolo, Milano 1986.

[12] Cfr. Dizionario teologico, a cura di J.B. Bauer e C. Molari, Assisi 1974, pp. 12-15.

[13] Cfr. G. Ruggieri, Cristianesimo, chiese e vangelo, Bologna 2002.

[14] J. Schumacher, Der Denzinger. Geschichte und Bedeutung eines Buches in der Praxis der neueren Theologie, Freiburg 1974; dei rischi della «Denzinger-Theologie» ha ripetutamente parlato Rahner nei suoi scritti.

[15] Cfr. P.C. Bori, L’interpretazione infinita. L’ermeneutica cristiana antica e le sue trasformazioni, Bologna 1987.

[16] L. Capovilla, Giovanni XXIII. Quindici letture, Roma 1970, p. 475.


Author

Enrico Galavotti Nato a Mirandola (MO) nel 1971, ha studiato all’Università di Bologna e nel 2002 ha conseguito il diploma di perfezionamento in Scienze Religiose presso l’Alta Scuola Europea di Scienze Religiose di Bologna. Ha insegnato nelle Università di Bologna e Modena-Reggio Emilia. Attualmente è professore associato di Storia del cristianesimo presso l’Università «Gabriele d’Annunzio» di Chieti-Pescara; è membro della Fondazione per le scienze religiose di Bologna e del comitato internazionale di direzione di «Concilium». Tra le sue pubblicazioni ricordiamo: Il professorino. Giuseppe Dossetti tra crisi del fascismo e costruzione della democrazia (Il Mulino, Bologna 2013) e Il pane e la pace. L’episcopato di Loris Francesco Capovilla in terra d’Abruzzo (Textus, Pescara 2015).

Address: Università degli Studi “G. d’Annunzio” di Chieti-Pescara, Dipartimento di Lettere, Arti e Scienze Sociali, Campus Universitario ‒ Via dei Vestini, 39 – I-66100 CHIETI SCALO.

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