Carmelo Dotolo
« I paradossi del populismo e il contributo della Chiesa alla democrazia. Ipotesi di percorso »
Thierry-Marie Courau, Susan Abraham, Mile Babić
Concilium 2019-2. Populismus und Religion
Concilium 2019-2. Populism and religion
Concilium 2019-2. Religiones y populismo
Concilium 2019-2. Populismo e religione
Concilium 2019-2. Religions et populisme
Concilium 2019-2. Populismo e religião
1. Democrazia e populismo: un conflitto ermeneutico
Non è affatto lineare definire lo specifico del populismo, di là dal fatto se possa rappresentare o meno una sorta di brandideologico relativo all’opposizione tra elite (corrotta) e popolo (puro), sulla base di una visione moralistica della politica. Esso sembra interpretare una nuova linea di “frattura fondamentale” entro il quadro socio-politico e culturale contemporaneo. Tale cleavage appare come messa in crisi radicale di processi che nel tempo hanno edificato l’architettura dello spazio pubblico, in cui modelli cognitivi e pratiche etiche segnalano un percorso di de-democratizzazione[1] che sembra erodere l’intenzionalità di un’adeguata relazione tra l’azione statale e le domande espresse dai suoi cittadini. Se la storia contemporanea può essere letta entro un progressivo cammino democratico, nondimeno in essa il principio della soggettività moderna ha colluso con elementi culturali, sociali, religiosi, etici che hanno tentato una configurazione più o meno equilibrata degli assetti antropologici e sociali. Non si può misconoscere il cammino di libertà ed emancipazione che la modernità ha rappresentato nell’incrementare una differente immagine del mondo e una cultura liberale. La simbolica dei diritti umani costituisce, in tal senso, un orizzonte semantico prezioso e non rivedibile nei suoi principi strutturali che pongono l’uomo e la sua dignità quale referente di ogni ermeneutica dell’azione politica e sociale. Purtuttavia, l’enfasi sull’autonomia del soggetto e sul dispiegamento della sua autoreferenzialità decisionale ha operato una distorsione nella lettura dei percorsi democratici, ritenendo possibile la costruzione di una società trasparente e priva di conflitti. Lo stesso cristianesimo, vettore di modelli democratici e di un umanesimo aperto, non ha sempre saputo offrire un discernimento critico circa il contributo del suo messaggio al mutamento culturale in atto rispetto a storie di disuguaglianze ed emarginazione.
La chiesa, che si colloca nel punto d’intersezione tra paesi ricchi e poveri, non dovrebbe qui divenire l’impavida lobby di questi paesi poveri, per il loro diritto a prendere parte alle decisioni della politica mondiale, per l’uguaglianza nelle questioni dei diritti umani e contro l’opinione egemone secondo cui gli assunti relativi ai diritti dell’uomo rappresentano in verità imperativi che, nel commercio mondiale, risultano estranei al sistema?[2]
La globalizzazione, infatti, ha ingenerato l’ideologia populista nel sostituire le fonti dei processi socio-culturali, erigendo il mercato, da un alto, e la scienza e la tecnica, dall’altro, a chiavi di lettura della comprensione della realtà. Corollario decisivo è la riformulazione di valori come libertà e democrazia quali derivati di più persuasivi codici culturali che, nella figura del network come paradigma socioeconomico, hanno operato una crisi dello spazio pubblico attraverso l’influenza dei miti neoliberisti. L’ipotesi di una forma postdemocratica (e cyber-democratica) della realtà sociale contemporanea sta facendo emergere il fascino ambiguo di una “democrazia reale” che, mentre attesta la centralità del nuovo cittadino/cliente, al contempo lo configura come fruitore passivo di uno spettacolo politico e luogo di misurazione dei rapporti di forza tra decisori politici (ed economici) e media.
2. Il populismo, un capitolo sui generis di teologia politica?
L’esigenza di individuare un leit-motiv nella costellazione semantica del populismo, deve fare i conti con la problematicità della categoria popolo, in relazione al quale il populismo è una modalità costruttiva della sua fisionomia. Senza dubbio, esso rinvia alla questione della forma e idea di democrazia rappresentativa e si presenta come veicolo di una più diretta partecipazione nella società. Di fronte ad una esasperazione dell’istituzionalizzazione della democrazia, il populismo disegna una democrazia del popolo, della gente ordinaria, suggerendo una diversa e più coinvolgente esperienza civica senza intermediazione partitica e, soprattutto, più vicina alle ansie quotidiane, al bisogno di sicurezza, alla difesa d’identità tradizionali, alla richiesta di un adeguato welfare state. In altre parole, si fa interprete di domande etiche, confidando su una uniformità di tradizione e su un sostrato di appartenenza religiosa ispirata da una certa teologia postliberale. Come non vedere ciò nella proposta populista della democrazia, su di uno sfondo rappresentativo omogeneo di popolo o nazione, tramite l’identificazione con un leader che lascia trapelare un’ideale e/o pretesa di pura democraticità? Da tale angolatura, il populismo sarebbe un «capitolo della teologia politica che ci porta alle fondamenta della sovranità democratica, laddove questa affonda le proprie radici: l’interpretazione del popolo e della regola di maggioranza».[3] In definitiva, l’intenzionalità del populismo emerge nella proposta di riformattazione del quadro sociale entro logiche di ri(con)duzione al locale dei processi di globalizzazione, ritenuti violenti ed espropriativi dell’identità. In particolare, si fa paladino della difesa dei confini nazionali; di una chiusura selettiva degli spazi geo-politici e culturali; dell’emarginazione dell’altro in quanto straniero-migrante; di una prudente revisione della way of life liberista e occidentale; della riemersione di identità confessionali connotative di una precisa appartenenza popolare e nazionale.
3. Premessa epistemologica: Chiesa e spazio pubblico
L’attuale congiuntura culturale sembra aprire un rinnovato spazio dialogico tra istituzioni civili e religiose. Se ne dovrebbe giovare la democrazia con i suoi principi orientativi. Ma, soprattutto, si delinea una diversa attenzione alla elaborazione di un ethos condiviso, spazio di confronto critico e di indicazioni di cammino adeguate alle domande della storia e ai problemi sociali e ambientali. In particolare, la Chiesa può lavorare ad un orizzonte di apprendimento inter-societario basato non su di una eredità culturale standardizzata, né su un modello di popolo-ethnos, ma su una visione nuova della cittadinanza attenta alle persone e alla loro dignità. Il cristianesimo è invitato ad esibire le ragioni delle sue competenze in ordine alla costruzione dello spazio pubblico, avviando una discussione avvertita sulle derive di una lettura ideologica dei populismi come alternativa ai processi democratici. In buona sostanza, ciò rinvia al compito della Chiesa quale partnership socio-culturale capace di operare criticamente una «desacralizzazione dello stato, la relativizzazione degli ordinamenti politici, la democratizzazione delle scelte in campo politico»[4]. Abitare lo spazio comune implica, pertanto, dispiegare percorsi di liberazione in termini di fecondità secolare e di ausilio agl’itinerari di democratizzazione del sociale. Vale a dire: in favore di una uguaglianza fondamentale, di una partecipazione completa, di una giustizia universale, di promozione dei bisogni radicali qualitativi sulla base della priorità teoretica ed etica della dignità dell’uomo.
Ne consegue che la finalità dell’istituzione ecclesiale è quella di essere metafora di un mondo differente, in cui la logica della fraternità e del dialogo delinea un umanesimo critico nel quale coniugare la cultura dei diritti umani con quella del diritto dei popoli. L’alternatività delle comunità ecclesiali risiede nella capacità di tradurre la simbolica comunitaria come indicatore di un diverso stile di vita. In tal senso, la possibilità che la Chiesa ha di operare un distanziamento critico da forme populistiche di lettura della realtà socio-culturale, è inscritta nella sua autocomprensione, incrementata dall’evento del Vaticano II. In essa emerge una differenza nell’idea liberale di democrazia che critica l’ideale culturale ed economico neoliberista; si oppone ad una assolutizzazione di ogni potere, in ragione del fatto che qualsiasi forma di autorità non è mai autoreferenziale, ma al servizio della comunità; prospetta una rappresentanza delle minoranze, contro il rischio che il principio maggioritario si trasformi in dispotismo della maggioranza; individua nell’esercizio dei diritti umani un mutamento di paradigma nei rapporti tra il religioso e il secolare, in quanto fa riferimento alla costruzione etica della persona e alla sua responsabilità storica nella ricerca del bene comune. Da questa duplice premessa, è possibile tracciare alcune linee di un possibile contributo ecclesiale ad una lettura critica della posizione neopopulista.
4. La Weltanschaaung cristiana per una nuova narrazione del mondo e della società
Per cogliere l’apporto ecclesiale alla questione populista è opportuno leggerne l’intenzionalità entro una certa idea di società e di cultura. Se il populismo segnala un deficit di governance democratica, tuttavia usa in modo surrettizio tale critica, poiché usa il processo democratico proprio per sovvertirlo.[5] E non tanto in ragione di una global polity, quanto sulla falsariga di principi quali la sovranità popolare e l’autonomia nazionale. Opzione, questa, che agisce sulla convinzione che l’habitat naturale della democrazia sia lo Stato, nel quale avviene l’autodeterminazione della libertà di un popolo, la sua identità confessionale, i suoi valori legati a forme di “religione civile”. Ora, una tale visione di Stato come collante territoriale e culturale deve fare i conti con un processo di mutamento costante della sua figura e di progressivi aggiustamenti che comportano alcune implicazioni e non poche contraddizioni. Tra le altre, la riscoperta dei confini contro un’immigrazione ritenuta inaccettabile, che preme affinché il territorio sia indicatore di appartenenza e criterio per discriminare quali diritti civili, economici e sociali possano valere o meno; la fragilità della democrazia rappresentativa degli Stati che deve contemperare la condivisione dei suoi compiti con organismi sovranazionali che impongono diktatche spesso urtano la possibilità di vita e di sviluppo per tutti; il rischio di una retorica delle radici religiose come rivendicazione di un’identità chiusa ad una creazione culturale adeguata. Tale complessità confluisce nella questione se sia praticabile o meno un modello multiculturale di organizzazione della società, alla cui ipotesi affermativa collabora la cultura del principio comunitario e del bene comune che pertiene all’esperienza della “cattolicità” della Chiesa. In questo quadro di riferimento, si colloca il contributo teologico-ecclesiale che si dispiega nella: a) cura dell’ethos della comunità; b) nella relazione diritti-doveri al servizio della fraternità; c) nell’esercizio dialogico tra le culture e le religioni; d) in un’economia attenta all’ecologia integrale.
a) Cura dell’ethos della comunità. Nell’architettura del pensiero cristiano il riconoscimento della centralità della persona umana e la cura dell’ethos della comunità costituiscono un orizzonte ermeneutico teso ad una diversa configurazione socio-culturale. Se il principio personalistico che ha condotto alla costituzionalizzazione della dignità della persona umana campeggia nello spazio del diritto, più delicata si delinea la difesa del bene comune per l’idea stessa di una comunità politica e sociale. Il motivo risiede nella possibilità di individuazione di un codice di intesa e di convivenza che sbalzi dalla prerogativa egemonica di una cultura e abbia un’intenzionalità universale. Di là dal conflitto tra comunitaristi e neoliberali, l’individuazione del principio comunitario da parte del cristianesimo conclude alla cifra onto-etica del riconoscimento, codice praticabile perché assume l’intero dell’esistenza. Nello spirito democratico-comunionale tale cifra afferma l’uguaglianza di tutti nella reciprocità del riconoscimento, dove i bisogni universali di libertà e dignità possano incrementare una vita politica nella quale le istanze comunitarie non siano solo nell’ordine del bene soggettivo, ma anche nell’ordine del giusto che muta lo statuto epistemologico delle proprie appartenenze, credenze, progetti di vita. Il principio comunitario secondo l’ottica ecclesiologica del “popolo di Dio”, mentre evidenzia l’insufficienza dell’autonomia individuale entro una dinamica relazionale, conduce all’importanza della comunità come spazio di apprendimento reciproco ed evolutivo, in cui lo stile di consultazione e deliberazione può contribuire alla crescita della responsabilità nel rispetto delle differenze. In tale processo, la stessa leadership ecclesiale può favorire la crescita e la cura delle comunità perché divengano “comunità ermeneutiche”, capaci di generare criteri orientativi e pratiche di vita socialmente costruttive nella logica della diaconia culturale.
b) Nella relazione diritti-doveri al servizio della fraternità. Se vale l’ipotesi che il principio comunitario chiama all’apertura al bene comune, alla cura della relazione, dove il criterio della giustizia e della dignità oltrepassa qualsivoglia valutazione di ordine ideologico, etnico e di genere, si comprende la forzatura ideologica populista della lettura mistificata dell’altro. Sotto il pretesto di cornici etniche e di identità culturali dalle inconfondibili radici, si nasconde il sintomo di una dinamica disgregante che connota le società sviluppate e le condizioni di benessere di uno status quo ritenuto immodificabile. Il pregiudizio razzista, la violenza xenofoba e la conseguente ostilità rifiuta il cambiamento che è suggerito dalla metamorfosi socio-culturale, nella convinzione che l’interculturalità sia impraticabile, eccesso inutile ed illusorio circa la possibilità di creare forme di convivenza.[6] Su tale aspetto, la vocazione interculturale del cristianesimo indica l’assunzione dell’altro quale luogo interpretativo della humana conditio, soprattutto se è straniero, migrante. Illuminante è la tipologia offerta dal testo biblico: l’altro è l’impoverito, l’orfano, la vedova, il nemico, figure che decostruiscono la solidità di una cultura autosufficiente e invitano ad uscire dalla neutralità e indifferenza. Lo stesso stile di Gesù Cristo fonda una nuova realtà umana e sociale, reinterpretando ogni concezione organica della relazione con l’altro e portandola al suo punto di saturazione: dinanzi all’altro che non appartiene al mio gruppo, estraneo nella sua particolarità culturale e religiosa, l’incontro può avvenire solo in analogia col gesto inaugurale del dono come legge paradossale dell’esistenza. Una legge che invoca il trascendersi del soggetto nell’interessamento dell’altro, fino a sostituirvisi, come mostra il paradigma del Samaritano, perché si possa dare avvio ad una convivialità delle differenze.
In tale orizzonte, la stessa affermazione dei diritti umani necessita non solo di un allargamento ai diritti culturali, sociali, religiosi, ma un incremento semantico degli stessi che riconosce l’altro come limite e condizione della libertà e veicola l’attenzione sul rapporto diritto-bisogno, più che su quello di diritto-capacità. Il cristianesimo coglie proprio in questo nesso una diversa e maieutica universalità dei diritti, i quali devono tendere essenzialmente alla solidarietà, inscritta nell’accoglienza dell’altro come colui che è nel bisogno. In questo orizzonte, la prospettiva cristiana alimenta l’etica dei diritti attraverso quella del dovere. Si è, dunque, alla presenza di un [7]vero paradosso: l’affermazione dei diritti trova il suo valore etico e politico se si innesta nella scoperta del dovere nei confronti dell’altro, verso cui sono tenuto alla responsabilità e alla solidarietà. Non meraviglia, pertanto, che nel testo biblico il dovere si profila come un diritto intersoggettivo, comunitario, sociale, che va dal non ledere i diritti dei più deboli (cf. Dt 24, 17-22) alla cura, responsabilità e accoglienza degli altri (cf. Mt 25). La vera forza etica dei diritti umani si esprime là dove pongono al centro i diritti del debole, delle vittime, degli emarginati. Da questa prospettiva, la fenomenologia dei diritti appella sì alla libertà, ma in vista della fraternità. Senza questa condizione, risulta arduo coniugare i diritti individuali, con quelli sociali, religiosi, economici, ecologici.
c) Nell’esercizio dialogico tra le culture e le religioni. Eppure, l’apprendimento ad un modo d’essere aperto all’altro non può sottacere un latente pregiudizio riguardo ad una diversità culturale che invita a differenti processi educativi. Incontrare una cultura e una religione altra è un evento che fa percepire al soggetto un pensiero diverso dal suo, talvolta, se non spesso, divergente. Appare evidente che la riuscita o meno di un processo d’interculturalità dipende anche dalla capacità delle religioni di vivere l’esercizio del dialogo. Anzi, di assumerlo come sfida etica, in ragione della responsabilità storico-sociale che hanno in quanto costellazioni di senso non indifferenti alla costruzione della vita. Le religioni, in particolare, attestano una “realtà Altra” che allarga lo spazio valoriale e offre un’ermeneutica culturale critica nei riguardi di quelle esperienze storiche autoreferenziali ed esclusive. Stabilire a livello interreligioso un’etica dialogica, vuol dire creare le condizioni minime perché vi sia una propulsione alla reciprocità, la cui autenticità può realizzarsi come interpretazione e cambiamento. Il dialogo tra le religioni, di fatto, ha il compito storico di smantellare l’incompatibilità tra universi simbolici differenti, volgendo il tendenziale antagonismo in relazioni che promuovano la pace e la giustizia su scala planetaria.[8] Non è più sufficiente, anche se decisivo, il principio della libertà e uguaglianza religiosa, espresso nella possibilità che l’individuo ha di vivere e cambiare la propria identità e appartenenza. Si richiede un nuovo stile di cooperazione tra stati e religioni, non solo là dove le comunità religiose sono meglio inserite nella tradizione culturale e sociale di un popolo. È vero che nella profonda crisi di trasformazione degli ultimi anni emerge una forte domanda di identità e di simboli in cui riconoscersi, nei riguardi della quale la religione rappresenta una rilevante riserva di valori cui attingere. L’attenzione rivolta alla dimensione sociale, culturale e politica della religione, deve includere, però, tutte le religioni, altrimenti si rischia di ricreare blocchi ideologici e discriminazioni tra gruppi religiosi forti e radicati e nuovi movimenti religiosi, minoranze religiose e altre religioni.
d) In un’economia attenta all’ecologia integrale. Secondo quanto detto, infine, l’ottica teologica dei diritti umani intesi come doveri solidali, mette in discussione alcuni assunti della teoria liberale-individualista dei diritti, secondo cui l’attribuzione dei stessi è connessa con il processo individuale di perseguire i propri interessi, ritenendo ininfluente la dinamica dell’interazione sociale. La preferenza al proprio interesse lavora ad una concezione mercantile della cultura socio-economica, seminando la convinzione che una vita felice e segnata dal benessere possa trovare nella disponibilità all’uso indiscriminato delle risorse e ad una loro resa finanziaria la base motivazionale determinante. Di fatto, ciò non contraddice le potenzialità dell’economia, ma la sua traduzione finanziaria. Tuttavia, la mondializzazione del mercato apre scenari di consumo standardizzato e omogeneo che pervade gli stili di vita, sotto la cappa dell’accumulazione indefinita dei patrimoni monetari. È a questo livello del problema, che diventa sempre più determinante per il cristianesimo proporre il valore etico-culturale dell’economia quale luogo di sviluppo e libertà. La logica della crescita quantitativa infinita, infatti, sta creando un nuovo immaginario collettivo, quello della competitività, accelerazione ed efficienza che, a livello sociale, decide della funzionalità del lavoro e dell’adeguatezza dell’attività sociale[9]. A far da arbitro è la legge mercatoria che, gestendo il flusso di denaro, valuta quanto possa inceppare il meccanismo finanziario, decidendo di eliminare quelle distorsioni che fanno frizione nell’ingranaggio della produzione nell’accumulo di capitali. Ma, cosa più grave, si è innescato un sottile dinamismo di rilettura dei diritti umani, sul cui sfondo si agitano i diritti del possessore. La trasformazione in atto è evidente, soprattutto nell’avanzamento di paradossi drammatici: una più ampia discriminazione sociale; un saccheggio capitalistico dell’ambiente; indicatori crescenti di malessere come depressione, obesità, crisi globale del burn out; aumento del Pil pro capite e crescita dell’indebitamento delle famiglie, di fronte alla difficoltà di poter pagare i beni pubblici (come istruzione e sanità). Da questa angolatura, la responsabilità culturale della dottrina sociale della Chiesa può condurre ad una riflessione più articolata sul rapporto economia ed etica, sulla base dei principi di cooperazione e sussidiarietà. Essa suggerisce che l’economia delle relazioni e la coesione sociale sono decisive nella logica di una democrazia economica,[10] in quanto può attuare un mercato globale in cui operare in condizioni di parità giuridica ed economico-finanziaria. Evitando discriminazioni, è possibile recuperare l’idea delle imprese cooperative, secondo un’economia di comunione che ponga al centro una differente cultura dell’efficienza, non più polarizzata sul profitto, ma sulla opportunità di creare lavoro, anche per quanti sono portatori di handicap. Ne consegue una qualità sociale dei mercati che si riflette su un modello di welfare abilitante, non più assistenzialista, basato sulla dimensione di bisogno della condizione umana. Ma, elemento qualificante, significa configurare nuovi stili di vita, modificare l’ottica del consumo irresponsabile, verso forme critiche di attenzione al risparmio, alla condivisione, alla sobrietà, in modo tale da poter soddisfare i bisogni, riducendo al minimo le risorse e la produzione di rifiuti. Ciò è possibile se il bene comune diventa condizione per una conversione culturale orientata ad una visione ecologica integrale, come attesta la Laudato sì di Papa Francesco.
5. Postilla non conclusiva: l’eterotopia del popolo di Dio
Non è fuori luogo ipotizzare che il contributo irrinunciabile del cristianesimo sia operare a vantaggio di una convivialità delle differenze. Compito non facile che richiede alla Chiesa di essere comunità di senso in qualità d’istituzione intermediaria tra persone e società. Qui si gioca la forza teoretica ed etica del suo stile di vita: vivere la logica della fraternità, provocare forme di solidarietà, elaborare una critica delle ingiustizie sociali e delle disuguaglianze, configurare una cultura democratica al servizio degli ultimi e degli emarginati. In tale farsi carico della realtà, la simbolica di “popolo di Dio” si dispiega nella chiesa dei poveri che pone al centro il principio di compassione e l’ermeneutica della storia a partire dai sofferenti e dagli impoveriti. In ciò, il futuro annunciato della promessa di liberazione è possibile, perché «l’istituzione ecclesiale è in effetti il vettore pubblico di una promessa. Senza questa originalità, il suo ruolo e la sua testimonianza crollano».[11]
Note
[1] Secondo C. Tilly, La democrazia, Bologna, Il Mulino, 2009, p. 81-115, la crisi democratica accade se vengono a indebolirsi tre processi fondamentali: l’integrazione delle reti fiduciarie; la neutralizzazione delle disuguaglianze di categoria; l’eliminazione dei centri di potere autonomo. Cf. Y. Mounk, Popolo vs Democrazia. Dalla cittadinanza alla dittatura elettorale, Milano, Feltrinelli, 2018, p. 178-195.
[2] J.B. Metz, Memoria passionis. Un ricordo provocatorio nella società pluralista, Brescia, Queriniana, 2009, p. 190.
[3] N. Urbinati, Un termine abusato, un fenomeno controverso, in J-W. Müller, Cos’è il populismo?, Milano, Università Bocconi Editore, 2017, p. xvii.
[4] J. Moltmann, Dio nel progetto del mondo moderno. Contributi per una rilevanza pubblica della teologia, Brescia, Queriniana, 1999, 46. Cf. S. Kim, Theology in The Public Sphere: Public Theology as a Catalyst for Open Debate, London, SCM Press, 2011.
[5] Cf. H. Geriselberg (ed.), La grande regressione. Quindici intellettuali da tutto il mondo spiegano la crisi del nostro tempo, Milano, Feltrinelli, 2018.
[6] T. Torodov, I nemici intimi della democrazia, Milano, Garzanti, 2012, p. 179-220 sottolinea la sporgenza demagogica dei populismi che gioca le sue chancesu un’identità emozionale. Il rifiuto xenofobo è segno di un’incapacità di guardare oltre il presente, nell’ignoranza dei punti di vista, dei conflitti d’interesse, dell’eterogeneità della società.
[8] Cf. H. Küng, Etica mondiale per la politica e l’economia, Brescia, Queriniana, 2002, p. 248-264.
[9] Cf. H. Rosa, Accelerazione e alienazione: per una teoria critica del tempo nella tarda modernità, Torino, Einaudi, 2015.
[10] Cf. S. Zamagni, L’economia del bene comune, Roma, Città Nuova, 2007, p. 122-147.
[11] C. Duquoc, «Credo la Chiesa». Precarietà istituzionale e Regno di Dio, Brescia, Queriniana, 2001, p. 326. Cf. J. Sobrino, “Critica delle democrazie attuali e cammini di umanizzazione a partire dalla tradizione biblico-gesuana”, Concilium 43 (2007/4), p. 91-107.
Auctor
Carmelo Dotolo, nato ad Ariano Irpino (1959), professore ordinario di teologia delle religioni nella Pontificia Università Urbaniana e decano della Facoltà di Missiologia. Dal 2000 al 2014 è stato Presidente della Società Italiana per la Ricerca Teologica (SIRT). È visiting professor alla Università degli studi di Urbino e all’Università di Zara (Croazia). Tra le sue pubblicazioni più recenti: L’annuncio del Vangelo. Dal Nuovo Testamento alla Evangelii Gaudium, Cittadella Editrice 2015; Teologia e postcristianesimo. Un percorso interdisciplinare, Queriniana, Brescia 2017.
Address: Pontificia Università Urbaniana, Via Urbano VIII, 16 – 00165 Roma.