Marida Nicolaci

« Il ‘popolo’ di Dio e i suoi idoli nell’Uno e l’Altro Testamento. Come la Sacra Scrittura sfida la retorica populista »

Thierry-Marie Courau, Susan Abraham, Mile Babić

Concilium 2019-2. Populismus und Religion
Concilium 2019-2. Populism and religion
Concilium 2019-2. Religiones y populismo
Concilium 2019-2. Populismo e religione
Concilium 2019-2. Religions et populisme
Concilium 2019-2. Populismo e religião


«Sei popolare quando ti riconosci nel popolo, quando gli appartieni, sei populista quando costruisci un feticcio in cui il popolo possa riconoscersi»[1]

Interrogare la Scrittura alla ricerca di argomenti che sfidino la retorica populista pone numerosi problemi di ordine terminologico, metodologico ed ermeneutico, cominciando da quello della definizione del «concetto essenzialmente contestato» di «populismo».[2] A cosa ci si riferisce quando si parla di retorica populista? Come accostare con rigore metodologico motivi e modelli biblici, culturalmente codificati in ragione di forme, contesti e strutture politiche delle società premoderne, a quelli in uso nella società occidentale postmoderna e, ancor più specificamente, nei contesti americani ed europei in cui l’affermarsi crescente di governi e leader cosiddetti ‘populisti’ sembra la prova di una crisi della democrazia rappresentativa? La ricerca nella Scrittura di input utili a una valutazione critica della retorica populista potrebbe risultare illegittima e anacronistica. A quale Scrittura ci rivolgiamo, poi, e come evitare di strumentalizzarla per legittimare o delegittimare modelli e strategie politiche contemporanee?  

Parto, dunque, dal dichiarare ciò che qui intenderò come populismo: non mi riferirò, come occorrerebbe fare sul piano storiografico, alle diverse forme in cui il populismo politico ‘classico’ si è andato manifestando in Europa e in America negli ultimi 150 anni, in stretta, anche se non esclusiva, correlazione con l’affermarsi dei regimi democratici.[3] Mi riferirò invece, in termini più strutturali, a quel «caleidoscopio variegato»[4] di dottrine, prassi e discorsi politici – attuati talvolta in stile «folcloristico» e scientemente scorretto – accomunati dalla rappresentazione di un’identità (e volontà) di «popolo» basata su una concezione astratta e mitizzata dello stesso, sulla omologazione dei suoi membri, sul conseguente ostracismo di chi dovrebbe essere considerato per esso estraneo o pericoloso, sulla creazione di feticci adeguati ad alimentare, consolidare e difendere un’identità monoliticamente concepita e su una retorica speculare, refrattaria alle distinzioni e alla complessità. Benché spesso associato ad una contrapposizione verticale tra «popolo» ed «élite», il discorso populista cui intendo riferirmi non è soltanto quello che trova nella critica dell’establishment il suo marchio specifico ma quello che, proprio in quanto mood o «stato d’animo»,[5] espressione del disagio e della protesta popolare, si distingue per il suo carattere per certi versi ‘tribale’ e dunque, paradossalmente, premoderno: 

Le concezioni liberal-democratiche (e le loro derivazioni storiche) provengono, in linea di principio, dal superamento della vita tribale. Rinchiudersi nella presunta (fideistica) semplicità dell’intuizione, ridurre la complessità dei fenomeni a qualche immaginaria causa unica ed elementare, affidarsi a un Capo carismatico e così liberarsi della difficoltà di dover capire il mondo per proprio conto, sono atteggiamenti che confliggono con l’uso di strumenti concettuali complessi ed equivalgono generalmente a una regressione al premoderno. Populismo è il regredire a un concetto assolutizzato di popolo, aprioristico e, soprattutto, mitizzato. Il popolo viene concepito indifferentemente come la sorgente o di ogni bene o di ogni male (nel quale ultimo caso esso è “plebe”). È comunque un’entità indifferenziata…A seconda di particolari costellazioni ideologico-politiche, la presunta identità primaria di un popolo viene riposta o nella “religione”, oppure nella “lingua”, o nella “tradizione” e “cultura”, o nel “territorio” dove il popolo è insediato, o nella vetustà e purezza della sua “razza” ed “etnia”. [6]

Premoderna, dunque, può essere considerata l’alleanza risultante dalla saldatura tra le rivendicazioni popolari e l’ostentata attitudine dei leader ‘populisti’ all’esaltazione di una astratta volontà del «popolo» al di sopra e contro ogni mediazione istituzionale; premoderna, anche, sembra la creazione, soggiacente a tale alleanza, di un sedicente diretto legame tra i leader e «il popolo» stesso ad esautoramento delle élite responsabili di ogni forma di corruzione. Premoderna, in ultima analisi, si può considerare la «componente morfologica di fondo» comune a tutte le varianti del «labirinto» populista, vale a dire «la convinzione che il vero strumento per affrontare e risolvere i problemi dell’universo mondo sia il fideismo», sia esso espresso con «il desiderio di un’unica verità di fede (non necessariamente religiosa) piuttosto che l’uso di differenziate verità al plurale»,[7] con il bisogno ossessivo di un capo carismatico o, soprattutto, di svariati feticci da porre a guardia del proprio recinto salvifico (di volta in volta il territorio, la religione, la lingua, la tradizione, la cultura, la razza etc.).[8]

Se quindi, dal punto di vista storiografico, il ‘populismo’ propriamente detto è un fenomeno moderno, ciò che, a mio avviso, consente di valutare la retorica populista alla luce del messaggio biblico è il carattere ‘tribale’ del suo costrutto che, forse inaspettatamente, permette di accostare il modo ‘populista’ di concepire, raccontare e vivere l’identità (e la rappresentanza politica) nelle società ‘post-democratiche’ al modo ‘religioso’ e, soprattutto, profetico di rappresentare e comprendere le dinamiche di costruzione dell’identità da parte del «popolo di Dio» che parla di sé nelle Scritture.

L’ultima necessaria precisazione riguarda l’orizzonte scritturale di riferimento all’interno del quale operare la ricerca: guarderò al canone biblico cattolico in modo tale, però, che la rilettura e riscrittura cristologica delle Scritture di Israele (il Nuovo Testamento come libro) non debba significare la rinuncia alla piena autonomia delle stesse (divenute l’Antico Testamento della Bibbia cristiana). Nel solco dell’intuizione sistemica di P. Beauchamp, mi riferirò per questo a «l’Uno e l’Altro Testamento», il Nuovo intrinseco al Primo (cf. Ger 31,31-34) non per continuità cronologica o teologica ma per intenzionalità teleologica.[9]

1. Il «popolo di Dio» nell’orizzonte dei popoli

Se, come è opinione maggioritaria degli esegeti, la redazione della forma finale della Torah di Mosé (Gen 1-Dt 34) non vede la luce prima della ricostruzione postesilica (VI-V sec. a.C.) e rappresenta gli interessi e le finalità identitarie della comunità ebraica tornata dall’esilio babilonese e radunata attorno al culto, al Tempio e alla Legge, soggiacente ad essa è l’esigenza di un popolo di narrare se stesso in modo efficace e significativo, salvifico, dopo ripetute e sempre più drammatiche esperienze di sofferenza nella relazione con i popoli vicini e con la loro superiore potenza politica e militare, rappresentata prima dall’impero neo-assiro e poi da quello babilonese. La restaurazione e la custodia dell’identità di Israele, in questa fase più che in qualunque altra precedente della sua storia, necessita dell’affermazione pressante dell’unità religiosa di un popolo che non può fare affidamento più – o comunque non in modo esclusivo – sulla territorialità o sull’indipendenza politica ma solo su qualcosa che precede e, eventualmente, fonda entrambe, ovvero la relazione di alleanza costitutiva con il Dio unico (Jhwh) da cui Israele deriva la propria unità e unicità distintiva in mezzo agli altri popoli. La possibilità di dire la propria identità sociale e politica dipende ormai essenzialmente dall’affermazione precedente e fondante della propria originante unità/unicità religiosa. Il racconto dell’esodo dalla terra di schiavitù delle tribù di Israele, le cui origini sono ricondotte simbolicamente all’antenato eponimo Giacobbe-Israele (Gen 32,29), diventa quindi il mito fondatore rappresentativo dell’identità etnico-religiosa del popolo e il motivo fondante – poi innumerevoli volte recitato, dal libro dell’Esodo a quello della Sapienza (cf. Sap 10,15-19,9) – della sua inesauribile speranza di popolo minacciato e spesso oppresso.  

Al contempo, però, il mito di una comune origine nel tempo e nello spazio, «essenziale per la costituzione-costruzione di una comunanza etnica»,[10] nel racconto genesiaco con cui si apre la Scrittura non si arresta ai patriarchi e alla storia del popolo nato da loro, ma si estende prepotentemente fino ad includere le origini comuni dell’umanità nell’Adamo maschio-femmina (Gen 1,26-28), un modo per dire che l’unità che rende l’umano immagine di Dio – a differenza dell’animale, molteplice nelle sue diverse specie – è per l’uomo un compito da adempiere vivendo la fraternità ed esercitando una sovranità che, nel progetto divino, non comprende violenza e spargimento di sangue (cf. il dono del solo cibo vegetale in Gen 1,29-30).  Letta sullo sfondo post-esilico prima richiamato, risulta ancor più forte la portata culturale e politica della scelta di cominciare il racconto di sé non dalla storia/genealogia (le toledōt) del capostipite Abramo dal suo padre Teraḥ (11,27), ma dalle toledōt dei popoli figli di Noè (10,1.32), radicate a loro volta nelle toledōt di Adamo (5,1) sullo sfondo delle toledōt del cosmo (2,4). Sin dall’inizio della Scrittura, così, «un solo argomento è quello che riempie tutta la storia sacra: i rapporti di un popolo con tutti i popoli».[11] Sul piano socio-antropologico, in questa scelta narrativa si manifesta una costante dei processi di costruzione dell’identità: «un’identità costruita come rappresentativa di una collettività mette in gioco…un processo dialettico di autoaffermazione ed esclusione, per cui “noi siamo noi” proprio perché “non siamo loro”. Per essere, per continuare ad essere “noi”, occorre far intervenire gli altri (vicini o nemici)».[12]Sul piano religioso, poi, essa significa «la coscienza di una presenza del non-giudeo nel giudeo»[13] che attraverserà l’intero racconto biblico da Genesi all’Apocalisse ove del «popolo di Dio» della Gerusalemme celeste si parlerà irreversibilmente al plurale: «e udii una voce grande dal trono che diceva: ‘ecco la dimora di Dio con gli uomini! Egli dimorerà con loro, essi saranno i suoi popoli ed Egli, il Dio con loro, sarà loro Dio» (Ap 21,3). 

A fondamento identitario del popolo di Dio, nella Torah che lo garantisce e custodisce in vita, sta quindi l’affermazione di una differenza e unicità originaria che, però, poggia essa stessa sull’unità originaria dell’umanità nella differenza dei molti popoli che la compongono: in che modo il popolo eletto saprà e dovrà vivere la sua propria unicità e differenza? Il mito genesiaco delle origini sembra rispondere che «l’elezione è concepita come una differenza per la quale l’eletto affronta l’universale. E lo sa».[14] Per il «popolo di Dio» delle Scritture, il riconoscimento e il rispetto salvifico dell’alterità, che significa contemporaneamente la rinuncia a qualunque forma di pretesa totalitaria, appartiene ‘geneticamente’ alla consapevolezza della propria elezione o particolarità. 

A riprova di ciò, narrativamente, l’elezione stessa di Israele, inscritta nelle toledōt di Sem (Gen 11,10) e nella storia della vocazione di Abramo (Gen 12,1-3), appare come la risposta divina alla tentazione idolatrica e totalitaria dell’umanità rappresentata miticamente dal possente racconto della costruzione di Babel o Babilonia (Gen 11,1-9). Se, infatti, in 10,5.20.31.32 la diversità delle lingue, delle famiglie, dei territori e delle nazioni sembra un dato assodato per i discendenti di Noè e dimostra che la pluralità differenziata dei popoli non compromette ma anzi esalta l’originaria unità e fecondità degli umani, tuttavia in Gen 11 la città che i figli di Adamo (i benē-’adam) vogliono costruire si basa sulla riduzione del «tutto» a un’uniformità ripetitiva: «tutta la terra» ha un’«unica» lingua e parole «uniche» (11,1) e i costruttori di Babel – già luogo rappresentativo del dominio guerriero e violento del re Nimrod e «culla degli imperi oppressori»[15] (10,8-12) – vogliono una città che ne rappresenti il «nome» (11,4), ovvero l’identità potente e vittoriosa, realizzandola come «una società senza alterità» con i mattoni di costruzione tutti uguali e regolari;[16] la torre, simbolo architettonico del loro trionfo, la vogliono capace di penetrare il cielo, di sfidare cioè l’alterità divina, di ridurla a sé e di addomesticarla a legittimazione sacrale del proprio progetto sociale e politico. Questo, poi, non ha altra ragione che la paura: «su, costruiamo per noi una città con una torre il cui vertice sia nei cieli e facciamo per noi un nome per nondisperderci su tutta la terra» (11,4). Il timore della disseminazione geografica e della differenza che, invece, nel progetto divino è il segno pieno della benedizione e della fecondità degli umani, spinge i costruttori di Babel alla realizzazione di una città totalitaria i cui membri siano tutti uguali, i cui atti comunicativi siano mera ripetizione di un discorso unico e che, per affermarsi, si esprima attraverso capi guerrieri e cacciatori come Nimrod. 

Il progetto di Babilonia è il totalitarismo. Esso sembra avere due motori. Da una parte la complicità di un popolo con la propria schiavitù, complicità mossa dal timore della dispersione e dalla debolezza che risulterebbero da questa scissione e dal confronto con lo straniero…Dall’altra, l’opportunismo di un principe che mette a frutto il desiderio e le angosce del popolo per farsi un nome e consolidare il proprio potere. Viene, quindi, a suggellare con il sigillo della propria volontà la sete popolare di un’unione rassicurante e a imporre a tutti il ‘pensiero unico’ che gli chiedono di garantire. Così, l’unità si realizza sul modo dell’uniformità e tende a livellare le differenze, a cancellare le singolarità degli individui e dei gruppi, e a eliminare i dissensi reali e potenziali. Ma quel che il racconto suggerisce con grande chiarezza è che il totalitarismo nasce sulla base di una convergenza di interessi: paura della libertà e della differenza, da un lato (11,4), sete di potere, dall’altro (10,8-10).[17]

Nulla di strano in questo progetto, del resto, se il protagonista è un essere umano abituato dal parlare serpentino alla paura di ciò che manca alla totalità e alla conseguente logica della gelosia e dell’usurpazione (cf. Gen 3,1-5). Come, però, sarebbe morte per gli umani una vita che si perpetuasse nella negazione dell’alterità divina e nel dominio ossessivo della totalità (cf. Gen 2,16-17; 3,4-5.22), così sarebbe maledizione inarginabile per loro la costruzione di una città violenta basata sulla paura della pluralità e della differenza (Gen 11,6-7). La reazione divina a entrambi i progetti è, perciò, speculare (cf. il parallelismo tra Gen 3,22-24 e 11,6-9). 

Gen 11,6 è il primo verso della Bibbia ebraica in cui compare il termine ‘am, «popolo», lo stesso che nel resto delle Scritture designa spesso Israele come popolo di Jhwh, non di rado in contrapposizione con ogni altra nazione (gōj) distinta per razza, governo, lingua, divinità e territorio. La prima volta che si parla di «popolo» (‘am), dunque, la sua connotazione monolitica («un solo popolo con un’unica lingua») è presentata come un pericolo per la convivenza umana. Il popolo nato dall’elezione dovrà scongiurarla anzitutto in se stesso: «Babele ha rivelato che l’umanità, nella sua forma culturale e politica, è malata. L’elezione va compresa come un rimedio. Ma questo rimedio è omeopatico, sposando la forma del male. L’uno e i tutti non sono posti forse in un’opposizione violenta?»;[18] l’eletto non sarà tentato di fare della sua elezione un motivo di negazione del diverso da sé o, ancor più drammaticamente, della diversità al suo interno stesso?  

2. Il popolo di Dio, le sue guide e i suoi idoli

L’attrazione prodotta dai costumi e dalle divinità delle altre nazioni, sperimentate periodicamente come più potenti nel corso della storia secolare di Israele, porterà talvolta ad accentuare il bisogno di una contrapposizione netta con gli stranieri (cf. Es 23,31-33; Lv 18,1-5.26-30; Dt 12,29-31; 20,16-18), simbolicamente e ritualmente espressa, ad esempio, dal comando dello ḥerem («sterminio») nel contesto della guerra santa (cf. Dt 7,1-2; 20,16-18; Gs 6-12; 1Sam 15). Nel complesso, però, il processo aperto e faticoso della costruzione sociale nel riconoscimento strutturale dell’alterità – di Jhwh, del prossimo e dello straniero dentro e fuori i propri confini – resta nella Scrittura la sfida identitaria maggiore del «popolo di Dio». Non a caso, infatti, alla relazione con lo straniero, soprattutto l’ospite che abita dentro i confini territoriali di Israele come emigrato residente, è dedicata parte rilevante della legislazione biblica e della sua interpretazione (cf. Es 23,9; Dt 26,5-6). La condizione di sradicamento, disagio e tensione verso un avvenire migliore propria degli emigrati finisce, anzi, per esprimere paradigmaticamente la condizione esistenziale dell’uomo e del popolo santo: «noi siamo stranieri davanti a te e ospiti come tutti i nostri padri» (1Cr 29,15; ma cf. anche Lv 25,23.35.47; Sal 39,13; 119,19; Eb 11,13; 1Pt 1,1.17; 2,11).  Per questo, dunque, l’israelita non deve «opprimere» e maltrattare lo straniero (Es 22,20; 23,9; Lv 19,33; Ger 7,6; 22,3; Ez 22,7.29; Zc 7,10; Mal 3,5) ma accoglierlo e rispettarne il diritto, in obbedienza al comando e ad imitazione di Colui che, com’è stato sostegno e difesa dei patriarchi nella loro condizione di emigrati, così è sostegno e difesa del forestiero (cf. Es 22,20; Dt 24,14-18).

Il processo di costruzione sociale del popolo di Dio, nel rispetto di ogni differenza, resta l’affare di più difficile gestione anche da parte delle sue guide carismatiche. L’epopea esodica, che ne è il mito fondatore, lo racconta nei termini di un combattimento per la liberazione dalla schiavitù. Se ne possono ricavare, ai fini della nostra riflessione, almeno due spunti significativi: la lotta per la liberazione, che è una lotta per l’affermazione del proprio diritto ad esistere e della propria alterità e differenza, comporta un rischio di vita di difficile elaborazione, non immune da nostalgiche memorie della condizione da schiavi (mortifera, ma esente da rischio) e, persino, dal perverso legame di attrazione reciproca tra il padrone e lo schiavo (cf. Es 6,9; 14,5-6; 14,11-12; 16,2-3); chi se ne fa interprete e leader, conseguentemente, deve essere in grado di sostenere il movimento vitale della differenziazione fino al suo esito compiuto. È ciò che deve fare Mosè, ad esempio, davanti all’accusa legittima degli scribi degli Israeliti (cf. Es 5,21) o del popolo nel deserto (Es 17,3), rischiando lui stesso il linciaggio (cf. Es 17,4).  

Il combattimento per la liberazione, però, svela la sua posta in gioco più grande quando si manifesta come radicale sfida antiidolatrica e inaggirabile richiesta di responsabilità verso il proprio essere, in quanto umani, l’unica ammissibile «immagine di Dio» (Es 20,2-5.22-23).  Il magnifico racconto della costruzione del vitello d’oro (Es 32; Dt 9,8-21; Ne 9,18-19; Sal 106,19-23), «luogo canonico dell’idolatria» nelle Scritture,[19] rappresenta paradigmaticamente il dramma della differenziazione e dell’alterità in seno stesso al popolo di Dio. Il Dio liberatore e i profeti che egli invia quali guide del suo popolo, infatti, ne «conoscono» la sofferenza (cf. Es 3,7; 4,31; 5,22-23) ma non sono in simbiosi assoluta col popolo e questo, insofferente alla differenza e all’insicurezza, può non essere in grado di gestirne l’alterità ed essere sempre tentato di «darsi un capo per tornare alla condizione di schiavitù» (Ne 9,17). Nei quaranta giorni in cui Mosè sale sul monte per ricevere la Legge dell’alleanza (Es 24,12-18), al Dio liberatore, presente nella nube che copre il monte (Es 24,15-18), viene sostituito in rappresentanza l’idolo d’oro, il giovane toro che rende tangibili ai sensi la potenza e la vitalità che rassicurano il popolo; al suo profeta, sfuggito al controllo (32,1.23), è sostituito chi si incarichi di rendere all’idolo il culto rassicurante di cui il popolo ha bisogno. Feticcio identitario in risposta alla paura dell’incognito e dell’indisponibilità della propria origine e del proprio futuro, l’idolo d’oro è quindi bruciato e frantumato da Mosè e le sue polveri fatte trangugiare al popolo che ha concorso a costruirlo con i propri preziosi (Es 32,20). 

In tutt’altra epoca, nel periodo monarchico della storia di Israele, sono soprattutto i profeti – e non i «profeti di corte» (cf. 1Re 22; Ger 28-29; Ez 13) – a dover sostenere il popolo nel suo processo storico di identificazione e differenziazione lottando contro il popolo stesso e i suoi capi a rischio della propria incolumità (cf., Am 7,10-17; Ger 19-20; 26,20-23; 37-38). Il combattimento antiidolatrico resta la loro missione liberatrice per antonomasia: non solo quello contro il culto idolatrico in senso proprio ma, con lo sviluppo storico-religioso, politico e istituzionale di Israele, anche quello realizzato attraverso lo smascheramento e la denuncia delle camaleontiche forme che l’idolatria assume persino nel culto stesso di Jhwh (cf. Is 1,10-15; 29,13-14; Ger 7), nelle tradizioni dell’alleanza e nei teologumeni di Israele quale «popolo di Dio»: «Jhwh non è forse in mezzo a noi? Non verrà su di noi la sventura!» (Mi 3,11). È loro compito puntare il dito contro leader e istituzioni che invocano le tradizioni di fede più sacre, diventate feticci, a ingannevole protezione del popolo alimentando un perverso meccanismo di rafforzamento continuo tra esperienza sociale e ideologia, lo stesso che porta i leader ad annunziare «visioni di pace» (shalōm), benessere, pienezza e solidità laddove «pace non c’è» (cf. Ger 6,14; 8,11; 14,13-16; 23,16-17; Ez 13,10.16) e dove, piuttosto, un’ingiustizia violenta e trasversale ha ammalato in profondità il tessuto sociale e politico del popolo. È loro ardua e drammatica missione quella di accusare gli effetti devastanti che i feticci nascosti hanno nella politica, nell’economia, nell’amministrazione della giustizia e, persino, nell’interpretazione della Legge, «ultimo rifugio dell’idolo»:[20]

«Come potete dire: ‘Noi siamo saggi, la legge del Signore (tōrat Jhwh) è con noi’? Perché, ecco, l’ha resa menzogna lo stilo di menzogna degli scribi!» (Ger 8,8). 

Il criterio distintivo che permette di smascherare l’idolo resta sempre, per i profeti, l’efficacia risanante della pratica della giustizia sociale intimata dalla Torah e, particolarmente, la difesa del diritto dei deboli, rappresentati dalle categorie più esposte: lo straniero, l’orfano e la vedova (cf. Es 22,20-21; Dt 10,16-19; 14,29; 24,17-22; 27,19). Ciò che veramente viene da Jhwh è «utile», giovevole, perché realmente efficace alla vita del popolo e alla custodia autentica dei più deboli che ne è la cartina al tornasole (cf. Is 1,17.23; Ger 7,5-7; 22,2-4; Ez 22,6-7; Zc 7,8-10; Mal 3,5); proprio dell’idolo, invece, è l’inconcludenza e l’incapacità di salvare (cf. 1Sam 12,21; Sap 13,16; Is 44,9-10; 46,2; 57,12-13; Ger 2,8.11-13; 16,19; Ab 2,18). La pratica feconda della giustizia diventa il metro profetico della custodia dell’identità e dell’esistenza stessa: se la verità della Legge viene tradita e la giustizia stravolta, si ritorna al caos precedente l’atto creatore (cf. Ger 4,22-26).

3. «Noi speravamo che fosse lui che avrebbe liberato Israele…» (Lc 24,21)

Il kerygma evangelico, nelle diverse forme che la sua attestazione letteraria ha assunto negli scritti che poi hanno formato il «Nuovo Testamento» come libro, si potrebbe considerare come la testimonianza più antica del processo di riconfigurazione teologica, rituale e sociale di quella parte di Israele che aveva riconosciuto nel profeta e maestro galileo Gesù di Nazaret il messia atteso per il tempo ultimo della propria liberazione (il Cristo), traendone conseguenze di estremo rilievo per la propria identità di «popolo di Dio», fino a quella – rappresentata eminentemente dalla missione e dalla riflessione paolina – di considerarla ormai inclusiva dei pagani indipendentemente dalla loro incorporazione ad Israele «secondo la carne». Dal punto di vista ermeneutico, penso si possa rileggere questo processo anche come testimonianza articolata e pluriforme del significato definitivamente antiidolatrico della professione di fede cristologica. Facendo leva proprio sul paradosso dell’identità messianica dell’uomo crocifisso e risuscitato dai morti secondo le Scritture (cf. 1Cor 15,3-5), questa implicava la negazione radicale di ogni interpretazione trionfalistica e violenta dell’identità del «popolo di Dio» e della figura di colui che ne avrebbe garantito la restaurazione messianica; implicava, al contempo, l’annunzio teorico e pratico dell’unità e della riconciliazione tra gli uomini oltre la ferita di ogni contrapposizione di matrice culturale, sociale ed etnico-religiosa (cf. Gal 3,28; 6,15; Ef 2,11-22; Col 3,11). Si può dire, in questo senso, che i primi cristiani, comprendendosi come popolo messianico di Dio, erede delle benedizioni di Abramo e delle prerogative di Israele, hanno dato alla nozione di popolo una connotazione anche ‘politica’ tentando di interpretarla – nei modi più disparati, in ragione dei contesti di vita concreti e specifici delle diverse ekklēsiai – con fedeltà alla rivoluzione di valori insita nella predicazione del Regno di Dio fatta da Gesù di Nazaret e significata nella sua pratica di vita a difesa e riscatto delle categorie sociali e religiose più fragili. Culturalmente connotata nel contesto sociale e politico dell’impero romano – e, probabilmente, non sempre felice in tutti i suoi esiti –, anche la loro appare come una lotta faticosa ed aperta per la liberazione nel solco tracciato da un Messia ricordato come evidentemente ‘popolare’ (cf. Mt 26,5 // Mc 14,2; Lc 19,47-48; 20,19; 21,37-38) ma profondamente distante tanto da un’interpretazione idolatrica e imperialistica della propria identità da parte del popolo (cf. Gv 6,14-15) quanto dall’arrogante e supponente presa di distanza dalle speranze del popolo da parte dei suoi capi (cf. Gv 7,49: «ma questa folla, che non conosce la Legge, sono dei maledetti!»). 

Tra le diverse espressioni protocristiane di questa lotta antiidolatrica per la liberazione, due mi sembrano particolarmente utili da richiamare in questo contesto: quella contenuta nella Prima lettera di Pietro e quella contenuta nell’Apocalisse, entrambi testi in cui spicca la riconfigurazione cristologica dell’identità del popolo di Dio nel contesto sociopolitico, culturale, economico e religioso dell’impero romano. Nella Prima lettera di Pietro il nome che esprime l’identità del popolo messianico è ormai la «fraternità» (adelphotēs, cf. 1Pt 2,17; 5,9),[21] «casa di Dio» (cf. 1Pt 4,17) dei senza casa sociali che nelle città asiatiche dell’impero romano risiedono come «stranieri residenti» o «di passaggio» in diaspora (cf. 1Pt 1,1.17; 2,11), esposti a vari tipi di vessazione e ostracismo sociale.[22] L’alternativa alla loro condizione di stranieri non è solo una «cittadinanza nei cieli» (cf. Fil 3,20), ma la casa che essi trovano nella fraternità cristiana come spazio sociale di integrazione, identificazione e libertà. Esplicitamente polemico, invece, il libro profetico per eccellenza del NT che è l’Apocalisse (cf. Ap 1,3; 22,10.18) riscrive cristologicamente l’esodo e rappresenta la sfida antiidolatrica lanciata alle sette chiese dell’Asia dal profeta Giovanni: la costruzione identitaria del popolo messianico, in essa, è il frutto di una lotta senza quartiere contro l’idolatria di un potere totalitario in tutte le sue forme ed espressioni politiche, economiche e cultuali (cf. Ap 13). Contro questa forma di idolatria, che riassume ogni tipo di infedeltà e di fallimento identitario, le chiese devono combattere e vincere restando fedeli, fino anche alla morte (cf. Ap 2,10; 6,9-11; 12,11; 13,15; 20,4), al Cristo Agnello, condottiero regale e vittorioso ma con le vesti immerse nel sangue (cf. Ap 5; 7,14; 19,11-16). Il frutto del loro combattimento, se vinto, è la dissoluzione di Babilonia, la città sanguinaria (cf.Ap 17,5-6; 18,24), e la manifestazione piena della Gerusalemme celeste, città santa. Con i confini perfetti e ben delimitati, essa ha però le sue dodici porte sempre aperte (Ap 21,25); su di esse sono scritti i nomi delle dodici tribù di Israele (Ap 21,12) ma il popolo che ne fa parte comprende ormai gente da ogni «nazione, tribù, popolo e lingua» (Ap 7,9), formula che richiama il linguaggio genesiaco e che con le sue sette occorrenze nel libro (cf. anche Ap 5,9; 10,11; 11,9; 13,7; 14,6; 17,15) indica che su tutte le nazioni del mondo si esercita effettivamente la sovranità di Dio e dell’Agnello; l’identità del popolo di Dio, all’interno della città, è ormai attuata inclusivamente e universalmente, al plurale (cf. Ap 21,3); in essa si celebra il culto ma senza tempio (Ap 21,22) e si regna senza più dover dominare nessuno (22,5), senza più infliggere e subire l’oppressione e la morte (Ap 21,4).[23] La profezia cristologica del Regno, interpretazione ultima di tutta la Legge, non lascia più scampo né agli idoli né agli effetti letali dell’idolatria; su di essa si configura processualmente l’identità del popolo di Dio.

Conclusione

Anche la Scrittura, in ultima analisi, conosce le dinamiche che, oggi, potremmo individuare come costanti morfologiche di ogni populismo: ne parla e le ritrae esemplarmente come modo possibile, e storicamente attuatosi, di autocostruzione identitaria di un popolo, addirittura del «popolo di Dio», con le sue guide. Le sfida, però, perché nel suo DNA profetico ne fa denuncia spietata e, ciò, nei modi più diversi, caleidoscopici come «caleidoscopio variegato» può dirsi il populismo con i suoi diversi feticci. Le sfida, soprattutto, perché nella riconduzione o sintetizzazione cristologica dell’identità e del destino del popolo di Dio, «eletto» e «unto», fa della difesa dei più fragili e nella lotta contro ogni forma idolatrica e sanguinaria di governo e di potere il criterio più sicuro per lo smascheramento dei feticci del popolo e delle sue guide. Se le diverse forme e manifestazioni di ciò che chiamiamo populismo sono tentativi dei gruppi umani di trovare salvezza, secondo le Scritture questa salvezza non può avvenire che nel segno del rispetto dell’uomo e della sua diversità: non l’umanità o «il popolo» come categoria astratta, ma i singoli uomini concreti e differenziati nella concretezza spazio-temporale delle loro relazioni ambientali. Non può, conseguentemente, realizzarsi nel segno della ricerca ossessiva di un leader e di una lingua unica che non lasci spazio alla differenza e al rischio, ma nella costruzione lenta e faticosa, contestualmente anche conflittuale, di ciò che «giova» alla comunione e all’unità tra gli umani; non con l’eliminazione delle mediazioni interumane ma nell’esaltazione delle capacità degli umani di correlarsi inclusivamente gli uni gli altri, rischiando, dentro e oltre ogni condizione di esposizione sociale.


Note

[1] M. Murgia, intervista su L’Espresso 30/7/2018.

[2] C. Mudde – C. Rovira Kaltwasser, Populism. A very short Introduction, Oxford University Press, Oxford 2017, 2; cf. M. Revelli, Populismo 2.0, Einaudi, Torino 2017, 4-5 ma anche l’intervista di F. Rostelli a Noam Chomsky pubblicata su Il Manifesto lo scorso 9 settembre 2018 (https://global.ilmanifesto.it/chomsky-working-people-are-turning-against-the-elites-its-not-populism/).

[3] Cf. C. Mudde – C. Rovira Kaltwasser, Populism, 40. 

[4] N. Merker, Filosofie del populismo, Laterza, Bari 2009, 8.

[5] M. Revelli, Populismo 2.0, 7-8.

[6] N. Merker, Filosofie10-11. Cf. anche p. 7.

[7] Ibid., 9-10.

[8] Cf. Ibid., 169-188.

[9] Si vedano P. Beauchamp, L’uno e l’altro Testamento. Saggio di lettura, Paideia, Brescia 1985, 286.313; L’uno e l’altro Testamento 2. Compiere le Scritture, Glossa, Milano 2001, 366-367. 416.

[10] L. Arcari, «Identità collettive, identità etniche, identità religiose. Elementi per una trattazione nella prospettiva della longue durée (tra antichità e medioevo)», in Reti Medievali Rivista, 16, 1(2015), 37.

[11] P. Beauchamp, Leggere la Sacra Scrittura oggi, Editrice Massimo, Milano 2007, 83.

[12] L. Arcari, «Identità», 35.

[13] P. Beauchamp, Le récit, la Lettre et le Corps, Les Éditions du Cerf, Paris 1982, 205.

[14] Ibid., 206.

[15] A. Wenin, Da Adamo ad Abramo o l’errare dell’uomo. Lettura narrativa e antropologica della Genesi, EDB, Bologna 2008, 156.

[16] Cf. Ibid., 156-157.

[17] Ibid., 158.

[18] P. Beauchamp, Le récit, la Lettre et le Corps, 208.

[19] P. Beauchamp, La legge di Dio, Piemme, Casale Monferrato 2000, 105.

[20] P. Beauchamp, La legge di Dio, 116-117.

[21] Cf. J. Schlosser, «‘Aimez la fraternité’ (1 P 2,17): A propos de l’ecclésiologie de la première lettre de Pierre», In Id., Á la recherche de la Parole. Études d’exégèse et de théologie biblique, Paris, Cerf 2005, 463-481.

[22] Si veda la tesi di J.H. Elliott, A Home for the Homeless. A Social-Scientific Criticism of 1Peter, Its Situation and Strategy, Wipf & Stock Publishers, Eugene (OR) 20052.

[23] Cf. K. Wengst, «Babylon the Great and the New Jerusalem: The Visionary View of Political Reality in the Revelation of John», in H.G. Reventlow, Y. Hoffman and B. Uffenheimer (eds.), Politics and Theopolitics in the Bible and Postbiblical Literature, Sheffield Academic Press, Sheffield 1994, 189-202.

Auctor

Marida Nicolaci ha conseguito la Licenza in Sacra Scrittura al Pontificio Istituto Biblico e il Dottorato in Teologia Biblica alla Facoltà Teologica di Sicilia dove insegna attualmente Esegesi del Nuovo Testamento. La sua ricerca si concentra soprattutto sulla Letteratura giovannea e sulle Lettere Cattoliche, testi considerati particolarmente rappresentativi delle origini giudaiche della Chiesa e delle tradizioni storiche e teologiche più giudaiche nel Nuovo Testamento.

Address: Pontificia Facoltà Teologica di Sicilia «S. Giovanni evangelista», via Vittorio Emanuele 463 – 90134 Palermo (Italia).



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