« Chiese allo specchio: i Rom(a) come test evangelico »

Di: Cristina Simonelli


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La drammatica lezione dei genocidi del secolo scorso, in particolare di quello nazifascista, non ha prodotto l’abbandono del disprezzo etnico che si era sperato. Non solo simili forme persistono, ma si rinnovano, nei grandi conflitti ma anche in quel fenomeno capillare che viene indicato come glo/calizzazione: di fronte a sistemi economico finanziari globali si sviluppano nuovi esasperati localismi. Per questi motivi il ricorso a categorie etniche è oggi tanto rischioso, perché porta con sé elementi di schedatura razzista. Si potrebbe dire tuttavia che è utile, come misura di difesa delle minoranze, che rischiano di essere annullate: in quanto non riconosciute e spesso, come nel caso dei Rom, apertamente discriminate. Le diverse forme di insediamento e anche di interazione con le popolazioni maggioritarie conoscono tratti comuni, così che non è necessario per questa ricognizione distinguere Europa occidentale e orientale.

1. Una mappa orientativa

Certo questo è il caso dei Roma: «mondo di mondi»[1] la cui storia in Europa si ricostruisce a partire dalla modernità[2] soprattutto attraverso i bandi di cacciata e le persecuzioni, fino appunto alla Shoà o a iniziative raccapriccianti come quelle realizzate in Svizzera dalla Pro Iuventute, che fino al 1974 sottraeva i bambini jenisch alle famiglie e sterilizzava le bambine.[3]  Un’altra forma peculiare di storiografia potrebbe essere quella che recensisce l’ingegneria musicale dei Rom, grandi esperti di contaminazioni, dai Balcani all’Andalusia.

Anche solo dare stime numeriche (si parla di circa 12 milioni in Europa, di cui metà in paesi UE – fra questi ultimi solo 150/200.000 in Italia) richiede alcune attenzioni: in primo luogo ci si dovrebbe domandare come vengono effettuati i censimenti, giustappunto, etnici. Spesso sono fatti con metodi intimidatori e polizieschi ed è comprensibile che molti cerchino di sottrarvisi. Inoltre non è la stessa cosa utilizzare una o l’altra denominazione, quelle cioè proprie (autonimi: Rom, Sinti, Kalé, Jenisch, fra gli altri) o gli eteronimi, che sono spesso epiteti dispregiativi, come zingari, o  inesatti, come nomadi. Quest’ultimo termine infatti diffonde un equivoco, che è quello relativo all’idea di miriadi persone in perpetuo movimento. In realtà solo una piccola parte di Rom in Europa è “nomade” o meglio “semi-nomade”, mentre la maggior parte è stanziale. 

[1] Leonardo Piasere,  I Rom d’Europa. Una storia moderna, Laterza, Roma-Bari 2008;  Les Roms. Une histoire européenne, Paris, Bayard, 2011).

[2] Non esistono fonti documentarie anteriori al XV secolo; i linguisti, a partire dalle strutture basilari della lingua romanés, ipotizzano  un inizio della migrazione (cause ignote) di queste popolazioni dal Punjab, verso l’inizio II millennio. François de Vaux de Foletier, Mille anni di storia degli Zingari (Jaca Book, Milano 1977) [Fayard 1970]. Oggi ci sono presenze anche in America e Australia, oltre che ceppi ancora in territorio asiatico: queste note si limitano all’Europa.

[3] Mariella Meher: La bambina, Effige, Milano (= Kinder der Landstrasse: ein Hilfswerk, ein Theater und die Folgen, Berne, Zytglogge, 1987, 2006).

Mentre si sviluppano indicazioni e strategie europee,[4] che trovano per lo più difficoltà di applicazione,  l’attualità registra anche la presenza di molte associazioni Rom, attive sul piano culturale e politico: nessuno può pensare oggi di parlare “di” loro, senza tener conto della loro voce.[5]

In un articolo di non molto tempo fa Moni Ovadia, parlando dei muri e dei respingimenti, mostrava come l’Europa si trovi rispecchiata nelle politiche che applica,[6] così come Hieronymus, arcivescovo ortodosso di Atene e tutta la Grecia, nella visita congiunta con papa Francesco e Bartolomeo di Costantinopoli all’isola di Lesbo (16.04.2016)[7] si è rivolto ai profughi dicendo che quando l’Europa li rifiuta, sperimenta in quel momento la vera bancarotta. L’idea dello specchio è molto efficace e può essere utilizzata anche per il rapporto “Chiese/Rom”: non si tratta solo infatti di descriverlo dal punto di vista pastorale, ma anche di domandarsi quali immagini di Chiesa ne traggano origine e quali sfide vengono a delinearsi.

2. Chiese e Rom: una formula ambigua

Una prima osservazione va fatta ai diversi modi di formulare questo rapporto. Paradossalmente, si riscontra un fenomeno simile a quello che avviene con le donne, rispetto alle quali molte formulazioni finiscono per dare l’idea che si tratti di due cose distinte, l’una di fronte dell’altra, quasi che sia donne che rom siano oggetti di cui si occupa la Chiesa e non soggetti ecclesiali a pieno titolo. E’ vero che non c’è, ovviamente, totale coincidenza, perché vi sono anche diversi Rom musulmani, stando una tendenza diffusa a sviluppare forme profonde e peculiari di religiosità nell’appartenenza alle religioni maggioritarie del luogo di dimora abituale o di prevalente nomadizzazione.[8]

[8] Cristina Simonelli, La religione di Dio. Pratiche e appartenenze religiose di sinti e rom, in Un cantiere senza progetto. L’Italia delle religioni. Rapporto 2012, a cura di P. Naso e B. Salvarani (EMI Bologna), 189-195; «L’estensione e lo spessore. La pastorale rom a Verona come recezione del Concilio», in Esperienza e teologia n. 29 (2012): 119-130.

Questo porta perciò a una larga maggioranza di battezzati nella Chiesa Cattolica e Ortodossa, ma anche (in misura minore forse anche per la passione per le forme di devozione popolare sia mariana che nei confronti dei santi) di area protestante. In tutte queste comunità ecclesiali la partecipazione è diversificata e può andare da una presa in carico personale e anche ministeriale (catechesi, diaconato, pastorato), a pratica devota o a notevole marginalità fino a una sostanziale estraneità. Dal secolo scorso si riscontra anche una cospicua adesione alla Chiesa Pentecostale (Assemblee di Dio in Italia, “Alleluja” in area ispanica), in forme con grande assunzione di responsabilità rom, con diffusione per contatto e legami familiari, meno legata delle precedenti ad aree di residenza. Si capisce perciò l’utilizzo di chiese/chiesa: con il plurale mi riferisco sia alle diverse denominazioni che alla pluralità delle comunità locali; con il singolare alludo alla Chiesa di Cristo, come comunione che ci sostiene e attende, in ottica ecumenica.

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