S. Morra – La misericordia, (ri-)forma della chiesa

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by Stella Morra


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Ancora adesso, nelle terre di Carewall, tutti raccontano quel viaggio. […] Perché nessuno possa dimenticare di quanto sarebbe bello se, per ogni mare che ci aspetta, ci fosse un fiume per noi. E qualcuno – un padre, un amore, qualcuno – capace di prenderci per mano e di trovare quel fiume – immaginarlo, inventarlo – e sulla sua corrente posarci, con la leggerezza di una sola parola, addio. Questo, davvero sarebbe meraviglioso. Sarebbe dolce la vita, qualunque vita. E le cose non farebbero male, ma si avvicinerebbero portate dalla corrente, si potrebbe prima sfiorarle e poi toccarle e solo alla fine farsi toccare. Farsi ferire, anche. Morirne. Non importa. Ma tutto sarebbe, finalmente, umano[1].

Nella Bolla di indizione del Giubileo della Misericordia Misericordiae Vultus troviamo un’affermazione che è forse necessario sottolineare: “L’architrave che sorregge la vita della Chiesa è la misericordia”[2]. Può sembrare solo retorica, una pura immagine; siamo convinti che si tratti invece di un’asserzione di peso teologico rilevante e di una dichiarazione programmatica sul piano ecclesiologico. La condizione necessaria a questa comprensione è però che si esca da una visione della misericordia confinata nell’ambito dei movimenti interiori e individuali, luogo dell’esercizio ascetico personale o, peggio, viziata da una rischiosa visione sentimentale e intimistica.

A metterci in guardia contro questa possibile falsificazione è l’affermazione stessa: la misericordia è architrave della vita della Chiesa, non semplicemente del discepolo o del credente. Per la struttura incarnata del mistero della Chiesa (e per la nozione di vita!), la misericordia deve riguardare anche la dimensione pubblica, visibile, storica e strutturale della comunità dei credenti, in una sola parola la sua forma.[3] La dimensione personale (non individuale) e (seriamente) interiore dell’area semantica di questa categoria non è per nulla negata, anzi è presupposta come assolutamente necessaria, ma non sufficiente e tanto meno esauriente. 

Accanto a queste indicazioni, nell’intenzione offerte dal titolo del presente contributo, abbiamo voluto porre una citazione, di tutt’altro genere, tratta da un romanzo; è infatti l’altra condizione necessaria nel tempo di transizione in cui ci troviamo a vivere: serve una sovrabbondanza simbolica che consenta al lettore/ascoltatore di immaginare, integrare e tenere aperto ciò che la definizione delle enunciazioni verbali (specie scritte) definisce e inevitabilmente chiude. Senza una attiva soggettività di chi legge saremo costantemente a rischio di dimenticare che la vera posta in gioco è sempre che, per ogni mare che ci aspetta, ci sia un fiume che a quel mare ci conduca, e qualcuno – un padre, un amore, una chiesa… – che lo inventi se non c’è, e che sappia lasciarci andare, perché tutto diventi finalmente più umano. A partire da queste due premesse, proviamo a procedere con ordine nell’illustrare la sfida e le opportunità che ci sono offerte.


[1] Alessandro Baricco, Oceano mare, Milano, 1993, p. 52-53.

[2] Francesco, Bolla di indizione del Giubileo Misericordiae Vultus, 11 aprile 2015, 10.

[3] Per la nozione di forma si veda Wladyslaw Tatarkiewicz, «La forma: storia di un termine e di cinque concetti», in Id., Storia di sei idee. L’Arte, il Bello, la Forma, la Creatività, l’Imitazione, l’Esperienza estetica, Palermo 2006, 229-254.

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