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Serena Noceti – « Popolo di Dio: un incompiuto riconoscimento (di identità) »

«È difficile sottrarsi all’impressione che la nozione di popolo di Dio abbia subito un processo di disaffezione […]; sembra doversi riconoscere che nella ricerca ecclesiologica del postconcilio la nozione di popolo di Dio tende a soccombere, come sommersa»[1]. Così Giuseppe Colombo, in un articolo pubblicato nel 1985, segnalava la crescente disaffezione per quella categoria che indubbiamente i padri conciliari avevano posto al cuore della loro lettura ecclesiologica; il teologo lamentava il progressivo oblio dell’espressione da parte di tanti teologi sistematici, europei e nordamericani, e nei documenti magisteriali, mentre andava sviluppandosi la riflessione nel magistero episcopale e nella teologia latinoamericani. Riflettere su come sia avvenuto questo distacco e sui fattori che lo hanno determinato risulta essenziale per poter comprendere, con senso critico e adeguata strumentazione, la lunga stagione post-conciliare, per leggerne gli sviluppi di pensiero e di prassi ecclesiale, come anche quelle prese di posizione che, in nome di un consolidamento –giudicato necessario- davanti alle tante novità conciliari e di una voluta riaffermazione di continuità nella Tradizione, hanno portato a uno stallo nella ricerca, a rallentamenti nei processi di ripensamento delle strutture ecclesiali, a contrapposizioni e polarizzazioni ideologizzanti, a un clima di sospetto (e di autocensura) che ben poco ha giovato allo sviluppo teologico post-conciliare e quindi alla dinamica della vita ecclesiale. 

1. Tra recezione ed ermeneutica conciliare

Il confronto critico sull’uso e il contenuto della categoria di “popolo di Dio” si colloca proprio nel cuore del passaggio tra una prima fase di recezione del Vaticano II, indubbiamente segnata da una rapida trasformazione delle relazioni, delle prassi, della forma ecclesiale complessiva nello sforzo dichiarato di acquisire quei tratti di visione ecclesiologica che il Concilio aveva consegnato, e un secondo periodo di consolidamento istituzionale, di puntualizzazione teologiche, di rideterminazione –sul piano simbolico, linguistico, operazionale- delle relazioni tra i christifideles, ministri ordinati e laici/laiche, che arriverà fino al passaggio di millennio. Nella prima fase la recezione, come processo trasformativo complessivo, nell’accoglienza dell’evento e della dottrina conciliare, ha coinvolto le chiese locali e le diverse componenti del corpo ecclesiale in riforme liturgiche, catechetiche, organizzative, con creative e coraggiose sperimentazioni (anche se talora, indubbiamente immature e parziali) ed ha visto l’apporto convinto degli episcopati locali, che hanno cercato di incarnare secondo sensibilità peculiari sul piano culturale il messaggio del Vaticano II e le sfide aperte per i differenti contesti sociali. La seconda fase mostra come uno dei tratti caratterizzanti una decisa e sempre più forte presenza e parola del magistero pontificio nell’ermeneutica dei documenti conciliari, per orientare la stessa recezione in prospettive che vengono considerate autentiche e corrette: verrà riproposta un’ecclesiologia a orientamento universalista, rispetto a quell’iniziale e incompiuta visione conciliare che prospettava una ecclesiologia dalle chiese locali (cf. Communionis notio, 1992); si riaffermerà una lettura cristologico-ontologica del ministero sacerdotale (cf. Pastores dabo vobis, 1992) con una correlata ricollocazione dell’apporto dei laici nella linea della “collaborazione” (cf. Ecclesiae de mysterio, 1997). Il tema del “popolo di Dio” è strettamente correlato con le dinamiche complessive di recezione del Concilio, che investono tutte le componenti del Noi ecclesiale, e con l’evoluzione nell’ermeneutica magisteriale e teologica: costituisce una delle componenti di riferimento ideali che hanno animato l’autocoscienza ecclesiale diffusa (non solo in America Latina, ma anche in Europa) e hanno motivato la trasformazione della prassi; allo stesso tempo è stato oggetto di puntuali prese di posizione critiche da parte del magistero pontificio, che hanno portato a una vera e propria cancellazione della categoria e alla sua “sostituzione” con altre immagini e nozioni[2]. È possibile “ri/attraversare” tutto il gioco di recezione ed ermeneutica conciliare proprio da questa prospettiva e da questo elemento “capitale”[3]. “Popolo di Dio” riapparirà e riacquisterà rilevanza solo quasi trenta anni dopo, con il papato di Francesco, nel profondo processo di rivisitazione dell’ecclesiologia del Vaticano II, una “re/visione” che egli conduce avvalendosi della ricca riflessione di teologi e vescovi latinoamericani (in primis, quella espressa dal CELAM): il ritorno del “popolo di Dio” è una delle cifre portanti di una quarta fase di recezione che si è aperta con il 13 marzo 2013[4].


Notes

[1] G. Colombo, Il “Popolo di Dio” e il “mistero” della chiesa nell’ecclesiologia postconciliare, in Teologia 10 (1985) 97-169: 107. 

[2] Ad esempio, nei progetti e piani pastorali elaborati dalla Conferenza episcopale italiana nel corso degli ultimi 50 anni, l’espressione “popolo di Dio” appare solo due volte, in un documento dell’inizio degli anni ’80, Comunione e comunità. Si fa ricorso abitualmente alle categorie di “chiesa sacramento”, “chiesa madre e sposa”, “chiesa corpo di Cristo”, “chiesa mistero”, etc. 

[3] Cf. G. Routhier, La recezione dell’ecclesiologia conciliare, in M. Vergottini (ed.), La chiesa e il Vaticano II. Problemi di ermeneutica e di recezione conciliare, Glossa, Milano 2005, 3-45.

[4] Individuo una terza fase di recezione conciliare negli anni 2000-2013, prendendo come terminus a quo il passaggio a forte valore simbolico del Grande Giubileo del 2000, nel quale il concilio Vaticano II è indicato come “bussola per la chiesa del terzo millennio”, senza che venga richiamata la prospettiva definitoria del “popolo di Dio”, e la rinuncia di papa Benedetto XVI. Sono compresi gli ultimi cinque anni di pontificato di Giovanni Paolo II e il pontificato di Benedetto XVI; è un tempo in cui l’ermeneutica magisteriale pontificia ha prospettato una valutazione di quale ermeneutica del Vaticano II fosse da considerarsi adeguata al processo di autentica recezione. Si pensi al discorso alla curia romana del 22 dicembre 2005, all’inizio del pontificato ratzingeriano.

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