2. Questione strutturale che ricolloca lo spirituale: il principio di pastoralità

Come ipotizza Theobald, il Concilio Vaticano II avrebbe inaugurato il mutamento del «dogmatico» e del «dottrinale» e del tipo di normatività che veicolano, ricollocandoli all’interno della relazione pastorale che è sempre segnata dal suo contesto storico.

Il principio di pastoralità inquadra l’insieme evento-testi del Concilio stesso, dal Discorso di apertura di Giovanni XXIII fino alla qualifica (e all’approccio sostanziale!) dell’ultima Costituzione approvata, la Gaudium et Spes, e lo attraversa instancabilmente, nel metodo, nel linguaggio, nei contenuti e nelle prospettive. È tuttavia necessario intendersi: non si tratta di un principio meramente applicativo, né di una logica puramente comunicativa, prospettive che pure hanno potentemente attraversato gli ultimi 50 anni.

Non è un principio applicativo: non si tratta di cercare semplicemente nuove forme di concretizzazione di un dogmatico-dottrinale che resterebbe fermo nel suo luogo determinante e giudicante, e cercare in qualche modo il massimo della “gentilezza e tolleranza”, senza comunque cambiare le premesse date. Non è neppure un principio comunicativo: non è questione di semplice (e scontata!) attenzione agli interlocutori, quasi una ricerca di audience, in un movimento che resta comunque unidirezionale, dall’alto verso il basso, da chi sa a chi non sa. 

Il principio di pastoralità può essere compreso in una prima approssimazione come un vero principio ermeneutico che assume la storicità all’interno, e non all’esterno, della soggettività ecclesiale e della relazione tra la Chiesa, la sua natura (e fondazione trinitaria, non più solo cristologica) e la sua missione.

La nostra ipotesi è che il Vangelo trasmesso nelle Scritture e udito nella tradizione (mantenendo Dei Verbum come sfondo di queste parole) è collegato agli innumerevoli destinatari, nei tempi e negli spazi (mantenendo Gaudium et Spes come sfondo di queste parole) da una tensione che potremmo definire propriamente sacramentale, nel senso più classico di questa parola (che richiede cioè una materia, un ministro e una forma e che implica, secondo una logica simbolica, una certa connaturalità tra gli elementi collegati). Questa tensione sacramentale è in un certo senso il mistero della Chiesa stessa, non identificabile  nel tempo della storia né con il Vangelo né con gli innumerevoli destinatari, ma insieme inscindibile da essi, che sono le vere res in causa, mantenendo così il ruolo secondo della Chiesa. Questa tensione è forma necessaria della relazione, ovviamente a precise condizioni.

Il principio di pastoralità indica la regola processuale (la forma, nella triade classica indicata, che non può essere ridotto a “formula” come rischia di accadere nella pratica dei sette sacramenti!) in questa tensione. Ed è, come dicevamo, caratterizzato dall’assunzione della storicità di tutti gli elementi in gioco.

Ovvio che, da parte dei teologi, questo quadro implicherebbe una mole di studi che è ancora quasi tutta da compiere per ricostruire strumenti e categorie concettuali nuovamente utili, accettando in questo senso un vero cambio di premesse. Ma già alcuni elementi si vanno facendo chiari negli studi come (e forse più) nelle sfide che ci raggiungono dalla pratica vivente. Il più evidente di questi elementi è, come diceva Theobald nella frase citata, la fine della centralità e primarietà del dogmatico e del dottrinale, che aveva considerato l’enunciazione logica e verbale come il vero criterio esterno della relazione di tensione sacramentale.

La discussione durante e intorno ai due Sinodi sulla famiglia ben ha mostrato il tentativo di prendere sul serio questo passaggio.[11] La questione affrontata dai vescovi ha riguardato la famiglia nella situazione attuale, e per chi intende la pastorale come l’applicazione della dottrina, essa è sembrata una questione di maggiore o minore rigidità di mediazione. La vera questione emersa, tuttavia, è di tipo strutturale: Amoris Laetitia lascia intendere nemmeno troppo tra le righe che la dottrina dovrebbe riprendere il suo posto di strumento e non di criterio.[12] Molta della tensione ecclesiale, tuttavia, è generata proprio da questo dislocamento.

La dottrina è uno strumento tutt’altro che secondario: in un soggetto collettivo il ruolo del linguistico è decisivo nella costruzione di una comunità comunicativa,[13] ma è vera questione strutturale riposizionare un elemento di questo genere. 

Delle moltissime osservazioni possibili su questa affermazione, tutte assai rilevanti, ne vorremmo esprimere solo una: l’assolutizzazione della dottrina come criterio ha portato con sé (come effetto non voluto né previsto) l’esilio dello spirituale. A livello teorico il ruolo dello Spirito e della vita secondo lo Spirito sono divenuti quasi evanescenti, almeno nella tradizione latina. A livello pratico la dogmatica è stata considerata più “accademica” e credibile della spiritualità, il catechismo più sicuro e corretto della pietà popolare e la domanda di spiritualità degli uomini e delle donne rischia di migrare in mille “altrove”. Queste separazioni sono un’amputazione della vita cristiana ed ecclesiale che da almeno due secoli è segnalata, a molti livelli e in molti modi e con molte parole si è cercato di porvi rimedio[14].

In questo quadro – è necessario ricordarlo – andrebbero analizzate e comprese con delicatezza anche alcune delle questioni inerenti alle crisi di ordine morale della vita della Chiesa insieme con le sincere e impellenti richieste di riforma: pur rimanendo chiaro che la responsabilità è grave e personale, perché anche nelle peggiori condizioni è sempre possibile fare il bene, resta comunque la questione che una decadenza di costumi di vaste proporzioni pone anche e sempre una domanda strutturale.[15] Se è infatti vero che ogni riforma nella e della Chiesa deve provenire dalla conversione dei cuori, pena non essere “vera”, è altrettanto necessario che intelligente discernimento e governo sapiente consentano che la “forma” che si vede, che contiene e che è comune sia efficacemente a servizio di questa conversione.


[11] Tra i molti esempi possibili, basterebbe mettere a confronto l’intervento in aula di mons. Stanisław Gądecki con l’intervento di mons. Mario Grech, entrambi presentati il 10 ottobre 2015: per il primo, non è misericordia ogni atto che non rispetta fedelmente le affermazioni dogmatiche, perché criterio della vita in Cristo è l’applicazione della dottrina; per il secondo, l’esercizio della misericordia è esattamente nel riproporre sempre la possibilità della relazione come il fine e l’affermazione dei principi dottrinali come lo strumento fondamentale per camminare verso la perfezione. 

[12] Cfr. Francesco, Esortazione Apostolica Postsinodale Amoris Laetitia, 8 aprile 2016, 2-3.

[13] Basti ricordare Jurgen Habermas, Teoria dell’agire comunicativo, 2 voll., Bologna, 1997.

[14] Citiamo un solo titolo secondo noi esplicativo, fin dal suo titolo: Giuseppe Angelini, La fede. Una forma per la vita, Glossa, Milano 2014.

[15] Si veda l’illuminante John P. Beal, «Vano quanto una nave dipinta sopra un oceano dipinto»: un popolo alla deriva nelle stagnazioni ecclesiologiche, in: Concilium 3/2004: Il tradimento strutturale della fiducia, pp. 121-135.

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