3. La misericordia di papa Francesco: categoria generatrice per la ri-forma?

In questo breve percorso siamo dunque giunti a mostrare come le attese di riforma vadano comprese in una mutazione di forma dell’esperienza cristiana nella sua declinazione cattolica che si propone come mutazione  di lungo periodo e che necessita di un cambio di premesse. E come il Concilio Vaticano II orienti questa mutazione, in una prima approssimazione, secondo il principio di pastoralità.

In una efficace recezione creativa di tutto ciò, ci pare di poter leggere l’opzione di papa Francesco di rimettere al centro della sua azione di governo la misericordia: non come tema dottrinale (oggetto ad esempio di catechesi, o di un atto di magistero scegliendolo come argomento di un’enciclica), ma piuttosto, dovremmo dire, in modo “multimediale”. La misericordia è un tema che torna nei suoi discorsi, nelle omelie e nei documenti, ma è anche un atteggiamento suo personale, gestuale, opzione canonica, operazione dell’immaginario e degli esempi. L’opzione del Giubileo è esemplare: appello alla soggettività del popolo di Dio e delle chiese perché si mettano in movimento, attraverso una provocazione che non è semplicemente un insegnamento, ma un “fare”, corporeo e popolare. Potremmo dire operazione performativa[16] che, nello stesso modo di azione, applica la decentralizzazione della dimensione dottrinale, non proponendo semplicemente un tema (un capitolo della dottrina), ma agendo “parole che fanno cose”.[17]

Questa prima caratteristica della categoria “misericordia” non è data solo dall’uso che papa Francesco ne fa, ma piuttosto dalla sua stessa natura: inevitabilmente, per il suo significato, pone in primo piano la necessità di ricostituire un legame interno tra teorico e pratico. Nasce da una autocoscienza, che richiede riflessione critica (sapere di sé, del proprio bisogno di misericordia e dunque delle proprie ferite e fragilità, saper riconoscere l’azione di Dio che ha agito e agisce misericordia verso di noi, trovare parole per nominare questo); ma al tempo stesso si auto falsifica se non trova la fantasia creatrice degli occhi, delle mani, dei piedi che fanno misericordia con “opere”. E questo vale, ovviamente, tanto per il singolo quanto per ogni situazione strutturale, compresa l’esperienza storicamente collocata della Chiesa. 

La seconda caratteristica è il suo carattere inclusivo e soggettivante: per ciò che significa e per come è usata, agisce come riconoscimento della dignità del soggetto ricostituendolo, aprendogli un futuro possibile e affidandogli la responsabilità di sé creando distanza dalle “cose” (comportamenti, problemi, ferite) che possono averlo menomato. Lo fa a partire da una solidarietà fondamentale (chi agisce misericordia ha ricevuto misericordia) in una virtuosa coazione a ripetere che include e riconosce.

Si potrebbe (e si dovrebbe) continuare nel percorso d’indicazione delle caratteristiche che fanno di questa categoria una efficace possibilità di generazione di una nuova forma di Chiesa. Ci sembra tuttavia che questo inizio sia sufficiente per mostrare il carattere generatore di questa strada: nella transizione di lungo periodo che abbiamo indicato abbiamo bisogno di categorie generatrici che muovano le diverse soggettività e costituiscano orizzonti di interpretazione e collocazione delle diverse particolarità. Serve una “mappa” perché i piccoli tratti di cammino possano alla fine essere riconosciuti come orientati e non dispersivi (o conflittuali). Funzione di un governo pastorale non è la “soluzione” di tutti i problemi (e quante volte lo ripete Francesco), ma l’offerta di categorie generatrici che mappino e valorizzino la fatica di tutto il popolo di Dio.

La “materia” nella logica della tensione sacramentale del mistero della Chiesa, infatti, rimane la vita come è, nella sua storicità e pluralità irriducibili. Il “ministro” risiede nella totalità del sensus fidei del popolo di Dio, nella sua unità differenziata, battesimale-eucaristica. La “forma” pastorale del legame tra queste due “realtà prime” chiede che la Chiesa generi continuamente mappe di percorso nell’ascolto del Dio che continua a parlare e del tempo che vive. Da un certo punto di vista, dunque, la “dottrina” è chiara e anche piuttosto tradizionale… Ma è proprio il punto di vista (le premesse, dicevamo…) e i luoghi reciproci di relazione di questi elementi che ne fanno un luogo di ri-forma possibile.

Vorremmo concludere come abbiamo cominciato: con una sovrabbondanza simbolica e poetica e con l’immagine del mare. Il passaggio che stiamo vivendo, infatti, chiede di avere il coraggio di allontanarsi dalla riva e affrontare il mare aperto e la nave di Pietro trasmutata nella nave di Paolo al capitolo 27 degli Atti degli Apostoli può rischiare il naufragio… ma siamo forti della parola del Signore: nessuna vita sarà perduta[18]! Dunque:

Come il nuotatore che si tuffa,
gettandosi dalla nave,
a corpo morto fino all’acqua giù in fondo,
e lì trova il suo dolce riposo;così nell’Amore io mi perdo. [19]


[16] Nella lettera a conclusione del Giubileo Miseriordia et misera (20 novembre 2016), al numero 5 con registro inconsueto si usa proprio questo termine.

[17] Cfr. John L. Austin, How to do things with words. The William James Lectures delivered at Harvard University in 1955, Cambridge MA, 19622. Ovviamente non si può non citare anche Victor Turner, The anthropology of performance, New York, 1986.

[18] Si veda il mirabile commento in Hans Urs von Balthasar, Gloria, vol. VII, Nuovo Patto, Milano, 1977, 483ss.

[19] Jean-Joseph Surin, Cantiques spirituels de l’amour divin, a cura di Benedetta Papasogli, Firenze, 1996, Cantico XLII [traduzione nostra].

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